L’Odissea del Mediterraneo, pt. 2: tragedie, leggi e prospetti futuri.
Parte 2
Oltre le Frontiere: Analisi delle Migrazioni nel Mediterraneo con il
Professor Giuseppe Sciortino
Al fine di comprendere meglio la situazione attuale sull’orizzonte “migrazione”, ho avuto la
possibilità di intervistare il Professor Giuseppe Sciortino, professore ordinario presso
l’Università di Trento. Grazie alla sua esperienza e conoscenza nel settore delle migrazioni, il
Professor Sciortino fornisce un’analisi dettagliata sulle origini, gli effetti e le potenziali
evoluzioni legate a questa problematica globale. A seguire, l’intervista.
Crede che gli accordi dell’Unione Europea e gli accordi bilaterali italiani sui migranti nel
Mediterraneo siano efficaci? Qual è il loro fine?
E’ una domanda piuttosto difficile, perché quando si parla di migrazioni non è mai chiaro cosa
voglia dire efficace e come si possa misurarlo.
Se una persona pensa che lo scopo della politica migratoria debba essere rendere impossibile
ogni arrivo non preventivamente autorizzato, è chiaro che questi accordi sembreranno un
fallimento: al 12 maggio del 2024 sono stati già registrati circa 58.000 ingressi, di cui 18.000 in
Italia (https://data.unhcr.org/en/situations/mediterranean). Tanti, se si considera che l’estate è
ancora lontana.
Se una persona, al contrario, pensa che tutti coloro che desiderano recarsi sul territorio
dell’Unione dovrebbero avere il diritto di farlo, è inevitabile che, anche in questo caso, il giudizio sia pessimo. Come potrebbe essere altrimenti se sono politiche che hanno prodotto (o,
più correttamente, non hanno evitato) oltre 4.000 morti nel 2023 e già 550 quest’anno?
Se invece una persona crede che sia una politica – in realtà un complesso di politiche – che cerca
di contemperare un insieme di obiettivi contraddittori (preservare un pieno diritto d’asilo sul
territorio europeo senza indebolire il sostegno popolare alle istituzioni nazionali ed europee,
scoraggiare arrivi di massa come quelli del 2015-16 senza abolire la distinzione tra migrante
economico e rifugiato, evitare che le dittature possano usare i flussi di richiedenti asilo come
armi – la cosidetta weaponization of migration – senza incrinare il diritto umanitario, e la lista non
finisce qui) l’approccio di valutazione cambia completamente. L’efficacia a quel punto non deve
essere valutata rispetto a un obiettivo assoluto (chiusura, apertura), ma rispetto alle alternative
praticabili qui e ora, nel quadro istituzionale, economico e politico dato. Che non sono molte.
Quindi un giudizio tecnico sulle politiche perseguite nel Mediterraneo è forse che la loro forza e
stabilità consiste proprio nell’essere, dal punto di vista di chi le progetta e le mette in pratica, il
male minore. Rispetto a due alternative, la totale chiusura e la sostanziale apertura, scarsamente
praticabili.
L’Unione Europea è infatti da tempo quello che si può chiamare un ‘mostro gentile’: garantisce
un (comparativamente) buon livello di protezione giuridica ai richiedenti asilo presenti sul
territorio dell’Unione, mentre agisce attivamente per ridurre il più possibile l’arrivo di potenziali
richiedenti sul proprio territorio. Si cerca di mantenere un approccio generoso, in altre parole,
riservandolo tuttavia a piccoli numeri.
E’ importante capire che, per cercare di mantenere basso il numero, le politiche restrittive,
contrariamente a quanto si pensa, non sono primariamente quelle navali. Il controllo migratorio
viene esercitato infatti principalmente attraverso le politiche di visto. Per viaggiare legalmente
verso l’UE, è necessario – a meno che non si provenga da un paese sviluppato col quale vigono
accordi – richiedere preventivamente un visto, che può essere negato a chi è sospettato di poter
diventare, allo scadere del visto, un immigrato irregolare, un overstayer. E’ uno strumento molto
efficace: un pò meno del 20% delle domande di visto riceve una risposta negativa, una
percentuale che può più che raddoppiare nel caso di paesi a maggiore rischio migratorio. Il
funzionamento delle politiche di visto finisce però inevitabilmente per aumentare la pressione
sugli attraversamenti non preventivamente autorizzati delle frontiere esterne, seguite dalla
domanda di protezione umanitaria. E’ qui che gli ingressi navali diventano particolarmente
importanti. Alle frontiere di terra è relativamente semplice negare l’ingresso. Per mare è molto
più difficile. Visto che il diritto umanitario vieta di riportare un richiedente asilo in una
condizione in cui verserebbe in condizione di pericolo (la cd. norma di non refoulement), una
volta giunti in un porto europeo è estremamente improbabile che si venga rimandati indietro. E si
avrà la possibilità di fare domanda di asilo. Anche se spesso questa verrà alla fine negata – allo
stato attuale vengono riconosciuti meritevoli di protezione quattro richiedenti su dieci – la
prospettiva di un ritorno forzato sarà molto in là negli anni, sempre che avvenga del tutto.
Almeno a giudicare dai dati disponibili, è un’evenienza rara (https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=Returns_of_irregular_migrants
_-_quarterly_statistics&oldid=631688).
Qual è il ruolo ricoperto dalla migrazione e i migranti del Mediterraneo nella politica
italiana ed Europea al giorno d’oggi?
L’Italia e l’Europa sono oggi, sotto il profilo delle politiche migratorie, molto più simili di quanto
non fossero in passato. Sino al 2011-12, si poteva parlare di un modello Mediterraneo di politica
migratoria abbastanza distinto da quello dell’Europa settentrionale (e da quello dell’Est
post-socialista). I paesi dell’Europa meridionale, e in particolare l’Italia, avevano una forte
domanda di lavoro straniero poco qualificato, una bassissima domanda di lavoro straniero
qualificato e un numero molto ridotto di rifugiati. I paesi dell’Europa settentrionale avevano
invece una forte domanda di lavoro straniero qualificato (in buona parte insoddisfatta), una
scarsa (e prevalentemente stagionale) domanda di lavoro straniero poco qualificato e un alto
numero di rifugiati. Non a caso, nell’Europa meridionale gli immigrati avevano un tasso di
attività superiore a quello dei nativi, mentre nell’Europa settentrionale era esattamente il
contrario. Se si leggono i documenti europei prima del 2011-12, non c’è bisogno di ermeneutica
per vedere che i paesi dell’Europa settentrionale scrivono ‘migrante’ per intendere ‘rifugiato’,
mentre quelli dell’Europa meridionale scrivono ‘migrante’ e intendono ‘lavoratore poco
qualificato’. Si pensi solo alle famose sanatorie che, come le olimpiadi, l’Italia (e non solo)
lanciava ogni quattro anni o giù di li. Per le autorità italiane, di destra o di sinistra, voleva dire
traghettare gli immigrati irregolari in un mercato del lavoro che ne aveva bisogno. Per le autorità
dell’Europa settentrionale, voleva dire munire centinaia di migliaia di stranieri di un titolo di
viaggio che gli avrebbe consentito di trasferirsi al nord per accedere al welfare o per fare
domanda di asilo. Ci sono forti dubbi che fosse effettivamente così, ma ormai poco importa.
Quello che conta è che la crisi del 2011-12 (che in Italia di fatto è durata almeno un decennio e
forse dura tuttora) ha fortemente ridotto la domanda di lavoro straniero poco qualificato, salvo
forse che nel caso del lavoro di cura. Mentre, a partire dalle primavere arabe, è cominciato a
crescere il numero di richiedenti asilo, facendo sì che anche in Italia la priorità politica fosse il
contenimento degli arrivi. In particolare, dopo la crisi nel 2015-16, una crisi che ha letteralmente
sconvolto il sistema politico di molti paesi europei, giungendo quasi a indebolire la stessa
sopravvivenza dell’UE (o quantomeno incrinando la sua popolarità). Da allora l’impostazione
italiana è molto più in linea con quella degli altri paesi europei.
Va anche considerato che un numero crescente di posizioni vede nel regime migratorio europeo
una possibile fonte di debolezza geopolitica. Nel 2021, quando il dittatore bielorusso ha usato i
migranti come strumento di pressione sull’UE – quello che è stato forse il più importante
preludio all’aggressione russa all’Ucraina – questo sospetto è diventato certezza. Da quel
momento, mi sembra che si sia creato un certo consenso – probabilmente informale – tra i diversi
paesi, e tra le diverse posizioni politiche all’interno di ogni paese, sul fatto che una crisi simile non debba più ripetersi. Le tradizionali divisioni politiche permangono, e le polemiche ci sono
sempre. Ma dopo il 2015-16 vengono maneggiate in modo più cauto. Le misure utilizzate dalla
Polonia per contrastare l’operazione bielorussa sarebbero state considerate molto diversamente
anche solo qualche anno fa. E mi sembra anche che una politica rigida di contenimento degli
sbarchi lungo la costa mediterranea abbia oggi in Europa meno critici di un tempo.
Come pensa che si evolveranno i processi di controllo migratorio nel Mediterraneo (nello
specifico parlando di misure di sicurezza e accordi) alla luce della sensibilità odierna
sull’argomento?
Allo stato attuale, la situazione lungo il Mediterraneo è relativamente stabilizzata, anche se
sembra i flussi siano di nuovo in crescita negli ultimi anni. La situazione lungo la sponda Sud
del Mediterraneo, tuttavia, è molto volatile. Solo pochi giorni fa in Libano si è discusso
apertamente della possibilità di far partire un gran numero di rifugiati siriani verso l’Europa
come arma di pressione.
I due scenari più probabili, nel medio periodo, sono il mantenimento dell’attuale strategia di
controllo (fortemente basata sugli accordi, anche finanziari, con paesi di transito) oppure, in
alternativa, lo sviluppo di una strategia più direttamente repressiva.
Gli spazi per uno scenario anche solo marginalmente più liberale sono minimi, se non addirittura
inesistenti.