Intervista all’ambasciatore Varvesi, pt. 1 – Trump, l’Europa ed il mondo multipolare
Da Washington a Nairobi, da Tripoli a Londra. La carriera dell’ambasciatore Gianfranco Varvesi, diplomatico dal 1969 al 2011, copre la storia repubblicana e almeno tre continenti. Oggi consulente e dedito ad iniziative di volontariato, ci ha concesso un’intervista a Roma nell’ambito dei seminari AESI – Associazione Europea di Studi Internazionali, di cui è consigliere e membro del comitato scientifico.
L’intervista, realizzata ad inizio aprile, verte su multipolarismo, Piano Mattei e carriera diplomatica. Quella che segue è la prima parte, la seconda sarà pubblicata prossimamente.
Nella sua carriera internazionale, Lei ha visto e lavorato su entrambe le sponde dell’Atlantico. Oggi si teme che Washington, concentrata sull’Indopacifico, recida o allenti i legami con un’Europa impreparata, e si guarda con preoccupazione alle prossime presidenziali americane. Come vede Lei questa eventualità?
Negli Stati Uniti normalmente la campagna elettorale per la Casa Bianca si articola sui problemi di politica interna come la disoccupazione, la sanità e l’inflazione. Anche la competizione fra Biden e Trump si muove lungo questa linea tradizionale, non senza qualche eccezione e anomalia. Il cavallo di battaglia di Trump è la lotta all’immigrazione illegale, ma non mancano nei suoi comizi le accuse sulla “presidenza rubata”, oltre ad una scontata contestazione di tutte le scelte dell’attuale inquilino della Casa Bianca, compresa la politica estera. Lo slogan della sua campagna elettorale del 2016 “America first” è stato un proclama isolazionista. Nel corso della sua presidenza, però, ha dato ampio spazio alla politica estera, sia impostando un programma non privo di elementi innovativi verso il Medio Oriente, sia adottando una politica di netta contrapposizione alla Cina, fino a flirtare con la Corea del Nord, nella speranza di indebolire il fronte dei regimi comunisti in Asia. Ha smantellato accordi sottoscritti dal suo Paese con l’Iran e con la Russia rispettivamente in materia di controllo dell’energia nucleare e degli armamenti. Si è mostrato insofferente nei confronti dell’Europa, sia che si trattasse dell’Unione Europea, che della NATO. Lo stesso Regno Unito, che sperava dopo la Brexit poter realizzare un sostanziale avvicinamento a Washington rafforzando la special relationship, è stato deluso. La politica estera di Trump può certamente essere definita erratica, ma tutto compreso ha risposto ai sentimenti più profondi del corpo elettorale.
Dal canto suo Biden, fino all’invasione dell’Ucraina, ha evitato scontri diplomatici; ha rilanciato il multilateralismo, ha recuperato i rapporti con l’Unione Europea e, per forza di cose, con la NATO. In linea con le sue priorità tradizionali, ha rafforzato i legami transatlantici. Ma anche lui ha adattato le sue posizioni agli umori della base in materia di lotta all’immigrazione illegale: ha continuato la costruzione del muro al confine con il Messico, seppure in sordina. Anche nei confronti della Cina ha mantenuto una linea di cautela.
Vede quindi una certa comunanza nella linea d’azione dei due presidenti?
In sostanza le prospettive della politica estera americana sembrano muoversi lungo alcune direttrici, pur se si presenteranno con accenti profondamente diversi, se eletto sarà l’uno o l’altro candidato. Si può ritenere che sarà confermata una qualche forma di contrapposizione alla Cina, e che i rapporti con l’Europa resteranno una necessaria costante degli Stati Uniti, sotto forma di strutture multilaterali o di relazioni bilaterali; in quest’ultima ipotesi l’Occidente non sarà più coeso come in passato.
Alla metà degli anni ‘90 i politologi sostenevano che con la fine della guerra fredda un mondo unipolare si stava aprendo. La fine del sistema geopolitico basato sulla contrapposizione Est-Ovest, invece, ha lasciato un vuoto che la “pax americana” non ha colmato. Anche in politica vige l’ horror vacui. Dall’inizio del XXI secolo ad oggi un susseguirsi di eventi ha profondamente mutato i diversi scacchieri su cui si svolgono le partite di politica internazionale. La Russia ha prima ritrovato stabilità e poi, ossessionata dal complesso di non essere più una grande potenza, ha cercato di recuperare i territori di un tempo o almeno una sfera di influenza. In realtà Mosca non ha capito che il tempo della spartizione dell’Europa era ampiamente tramontato. I Paesi che erano stati suoi satelliti, appena liberati dal giogo sovietico, si sono affrettati a cercare riparo nella sfera occidentale. L’ideologia non è più complice del potere del Cremlino. La difesa delle minoranze – slogan cui Putin sta facendo ricorso – suscita troppi ricordi drammatici e impone il rifiuto di nuove forme di appeasement. A Mosca, fallito il tentativo di creare un governo amico in Ucraina non è rimasto che tentare l’invasione militare.
Quale ruolo vede per la Cina in questo schema multipolare? E i BRICS come potrebbero inserirsi in queste dinamiche nuove?
La Cina, dopo aver soffocato la rivoluzione di Piazza Tienanmen ha gradualmente mutato politica puntando sulla crescita economica. Con un sistema politico misto – fortemente centralizzato e autocratico in certi settori, ma relativamente liberale in altri – sta conseguendo lo status di grande potenza. Sul piano internazionale ha indicato le sue priorità e con pazienza e fermezza le sta perseguendo. Sta mutando lo status di Hong Kong, malgrado gli accordi con Londra prevedessero un status speciale fino al 2047. Ed ora sta puntando seriamente su Taiwan, minacciando il principio di “una Cina due sistemi”, con le conseguenze di un allargamento delle acque territoriali cinesi, tale da modificare le rotte della navigazione internazionale e gli equilibri nella regione. Ancor più significativa è l’espansione della Cina attraverso la cosiddetta “via della seta” (detta anche “Belt and Road Iniziative” (BRI) oppure “One Belt One Road”). Stando alle dichiarazioni di Pechino si tratta di un progetto teso a migliorare i collegamenti commerciali della Cina con l’Africa, con l’Europa ed anche con l’America Latina. In realtà è un disegno strategico teso a creare un forte legame commerciale con i Paesi più industrializzati dell’Europa, ma anche e soprattutto uno strumento di penetrazione politica in quei Paesi che necessitano di ingenti capitali per creare le loro infrastrutture necessarie al proprio sviluppo.
Un altro grande cambiamento verificatosi negli ultimi anni nel Sud del Mondo e che per comodità di sintesi possiamo identificare nei BRICS. Si tratta certamente ancora di un embrione politico, di cui è difficile anticipare la forma che assumerà ed il peso che potrà esercitare. Tuttavia merita di essere sottolineata la circostanza che dopo una serie di veti incrociati in seno al Consiglio di Sicurezza sul conflitto fra Israele e Hamas, la sola Risoluzione che è stata approvata è stata quella presentata dai dieci membri non permanenti. Mi sembra una prova del pantano in cui si trovano le grandi potenze, che hanno perso la capacità di leadership nei confronti dei Paesi meno importanti e la capacità di dialogare fra loro per individuare punti di equilibrio reciprocamente vantaggiosi. Forse non è la fine del sistema, ma certo è la testimonianza che siamo in una fase di crisi profonda, per non dire caotica.
Comunque, stando alla situazione attuale, nel quadro della politica mondiale appaiono quattro protagonisti: due si collocano in primo piano Cina e Stati Uniti e due sono alla ricerca di un ruolo di maggior rilievo, quali la Russia, che sgomita per affermarsi, e l’Europa, ancora incapace di decidersi sul proprio futuro. Nella speranza che i due principali conflitti in corso (Israele – Hamas e Russia – Ucraina) non degenerino, è prevedibile che Washington guarderà con sempre maggiore preoccupazione alle crescenti tensioni nei suoi rapporti con Pechino. Trascurando l’Europa? Ci dobbiamo chiedere se la nuova Amministrazione americana sarà in grado o vorrà gestire una politica vigile ad un tempo verso l’Atlantico e verso il Pacifico. Per realizzare autorevolmente quella che potremmo definire “una politica dei due oceani” occorrono visione, determinazione e risorse.
Quale strada vede, quindi, per l’Europa?
Ricordo che l’ambasciatore italiano presso lo Zar chiese al ministro degli esteri russo se riconosceva al suo Paese lo status di grande potenza; ha dovuto ripetere la domanda preferendo il suo interlocutore non rispondere. Viste le insistenze dell’italiano, il russo gli ha detto che lo status di grande potenza non si chiede, lo si impone. Aggiornando questo fondamentale principio politico l’Europa, invece di continuare a sperare nell’ombrello americano, l’Europa si consolidi.
Ringraziamo profondamente l’ambasciatore Varvesi e AESI, in particolare il presidente Caneva, per aver reso possibile questa intervista.