Intervista all’ambasciatore Varvesi, pt. 2 – il Piano Mattei, la carriera diplomatica

Questa è la seconda parte dell’intervista all’ambasciatore Varvesi, realizzata nell’ambito dei seminari AESI. Qui per la prima parte dell’intervista.

Questa domanda si riferisce al Piano Mattei. Tale piano dovrebbe, nelle intenzioni dell’Italia, costituire un nuovo modello di sviluppo e soprattutto di relazioni tra l’Italia, l’Occidente e i Paesi africani. Qual è la Sua opinione in merito? E come la diplomazia informale, a partire dalle iniziative come quella dell’AESI, può rafforzare i legami con i nostri dirimpettai?

Nelle intenzioni di chi ha ideato il Piano Mattei vi è l’auspicio di avviare un nuovo modello di cooperazione allo sviluppo e di costruire su nuove basi le relazioni con i Paesi africani. Il vecchio sistema dell’Aiuto Pubblico allo Sviluppo era nato dal processo di decolonizzazione. Se la colonizzazione è stata una grave offesa all’umanità, il subitaneo processo di decolonizzazione verificatosi fra la fine degli anni cinquanta e l’inizio degli anni sessanta è stato un peccato ancora più grave: si è trattato, infatti, del più infame esempio dell’ “usa e getta” da parte delle potenze coloniali. Fin quando vi è stato un vantaggio economico sono stati sfruttati territori e popolazioni, è stata limitata perfino la possibilità di una crescita culturale dei giovani con lo sbarramento alle prime classi elementari. Poi, quando non conveniva più, quelle genti sono state abbandonate, pur nella consapevolezza che fossero impreparate ad autogestirsi. In Africa i nuovi governanti provenivano quasi tutti dalle fila dei sottoufficiali dell’esercito, la categoria che aveva qualche nozione in più rispetto ai loro concittadini. Di qui gestioni dittatoriali e un susseguirsi di colpi di stato. Per far fronte a queste crisi, che hanno inevitabilmente afflitto il giovane continente africano e creato problemi agli ex colonizzatori, si è cercato di rimediare con quella che inizialmente è stata denominata Assistenza Tecnica, per poi prendere il nome più elegante di Cooperazione allo Sviluppo. Secondo alcuni, si è trattato, specialmente nei primi anni, solo di una forma di neo colonialismo economico, secondo altri è stato uno sforzo verso rapporti più avanzati, nella ricerca di vantaggi reciproci.

Dubbi che non si pongono nel caso delle iniziative di Mattei

Il riferimento a Enrico Mattei richiama appunto l’approccio rivoluzionario del fondatore dell’ENI. Contro il predominio delle Sette Sorelle, che imponevano ai Paesi di cui sfruttavano le risorse petrolifere un rapporto – nella migliore delle ipotesi – del 51% a proprio vantaggio, lasciando ai secondi il 49%. Mattei, con un approccio ispirato certamente ai suoi valori umani, ma ovviamente anche a criteri imprenditoriali e concorrenziali, si è presentato proponendo fifty – fifty. Si è così affermata la mentalità del maggior rispetto dell’ “altro”; mentre sul piano politico ha anche offerto un sostegno concreto ad alcuni Paesi che ancora combattevano per l’indipendenza, in particolare modo all’Algeria.

Quindi la formula del Piano Mattei appare indovinata, non solo perché vuole ricordare le pagine migliori della presenza italiana in alcuni di quei Paesi, ma anche evocare le attuali attività di ricerca della nostra industria. Basti pensare che proprio l’ENI ha realizzato nell’offshore egiziano la più grande scoperta di gas naturale nel Mediterraneo. Del resto, la crisi nei rapporti con la Russia dopo l’invasione dell’Ucraina è stata superata grazie alla forte presenza del nostro Ente idrocarburi in Africa

Come il Piano Mattei interseca la questione migratoria?

Il “Piano” è stato concepito per far fronte al problema immigratorio, visto che la Convenzione di Dublino penalizza i Paesi di primo approdo, e l’Italia in particolare. I tentativi di modificare la Convenzione stessa e gli aggiornamenti successivi, almeno per inserire clausole per la distribuzione dei migranti fra i partner comunitari, hanno conseguito scarsi risultati, come del resto anche gli sforzi bilaterali intrapresi dai precedenti Governi italiani con i Paesi rivieraschi del Nord Africa. Le iniziative intraprese dalla Germania hanno suscitato forti critiche, all’interno, quando la signora Merkel ha accolto un milione di cittadini siriani, così come sul piano internazionale, quando la stessa con i miliardi dell’Unione europea ha pagato la Turchia per trattenere il flusso di extra comunitari che tentava la via dei Balcani. 

Constatato il crescendo degli sbarchi, nel 2019 erano stati 11.471, nel 2020 erano saliti a 34.154 e nel 2021 a 67.477 (fonte Min. Interno), ovviamente il nuovo governo, dal suo insediamento nell’ottobre 2022, ha cercato una nuova strategia per affrontare il problema. Facendo prevalere sullo slogan “aiutiamoli a casa loro” quello più costruttivo di “cooperazione virtuosa e non predatoria” è stata lanciata l’idea del “Piano Mattei”. La premessa è stata che l’Africa è una terra ricca con una popolazione povera: infatti il continente detiene il 60% delle terre arabili, il 60% dei metalli, un’alta percentuale dei metalli preziosi e delle terre rare, inoltre è in forte crescita demografica. Nel complesso ha un enorme potenziale di capitale umano e di risorse naturali. È’ mancato finora, però, il trasferimento delle tecnologie, mentre sta crescendo la competenza dei giovani specialmente nelle materie scientifiche e, soprattutto, la loro determinazione a farsi valere. 

Al piano si imputa una certa vaghezza

L’elaborazione degli obiettivi e delle strategie è stata lunga e più lunga ancora sarà la loro attuazione. Si è dovuto affrontare l’ostacolo delle risorse finanziarie nella consapevolezza che l’Italia, nell’attuale seria congiuntura finanziaria, non ha certo la capacità di gestire da sola un simile sforzo

Solo nel novembre 2023 è stato varato un Decreto-Legge sulla gestione del Piano, le priorità di azione e gli ambiti di intervento. Si è deciso di concentrarsi su nove Paesi africani (Egitto, Tunisia, Algeria, Marocco, Etiopia, Kenia, Mozambico, Costa d’Avorio e Congo), e di sviluppare 17 ambiti di intervento. A fine gennaio 2024 si è svolta la conferenza Italia – Africa per creare l’auspicata atmosfera di collaborazione, evitando vecchie procedure paternalistiche o caritatevoli, ma concordando i progetti su un piano di parità. Bisogna riconoscere che fra una quarantina di delegazioni partecipanti al vertice si sono registrate reazioni diverse: adesioni, anche se alcune solo di circostanza, qualche critica e delle perplessità. Va peraltro riconosciuto che l’impegno italiano ha avuto il merito di aver proiettato l’Africa e i suoi problemi sulla scena internazionale, istituzioni finanziarie comprese, capovolgendone la percezione da problema dell’immigrazione in Europa, a visione operativa dell’Europa per e con l’Africa.

Parlando di Europa, come si pone il resto del continente rispetto al Piano Mattei?

Il Governo italiano ha cercato il sostegno dell’Unione Europea. Se la Presidente della Commissione ha mostrato grande disponibilità, offrendo anche risorse finanziarie, per il momento l’atteggiamento dei Paesi partner è cauto. È’ certamente comprensibile che la Francia, proprio nel momento in cui sta tramontando la sua presenza in Africa occidentale, guardi ad un tempo con diffidenza e con attenzione alla posizione italiana. Nel complesso il Piano Mattei suscita certamente interesse nei partner comunitari, tutti preoccupati dal fenomeno migratorio e dalle conseguenze sulle loro opinioni pubbliche, ma anche negli Stati Uniti, a loro volta preoccupati dalla penetrazione in Africa della Cina, con forme di cooperazione finanziaria, e della Russia, con cooperazione militare.

Per la sua complessità il Piano procede lentamente, cercando di superare ostacoli economici, interni e internazionali. L’idea appare buona, ma, proprio come ha riconosciuto il Presidente Meloni, “non possiamo farlo da soli, contiamo coinvolgere l’Unione Europea e il G7” e pertanto resta da vedere come sarà accolto dalla Commissione e dal Parlamento Europeo che nasceranno dalle elezioni del prossimo giugno.

Quale ruolo può giocare la società civile, non solo nel contesto del Piano Mattei ma dell’attività diplomatica italiana più in generale? Penso ad esempio alle iniziative di diplomazia universitaria dell’AESI

Nel quadro della cooperazione le iniziative della società civile hanno ampio spazio e l’impegno dell’ AESI sarebbe certamente bene accolto. Del resto basti ricordare le relazioni stabilite dal Prof. Caneva con le università di Paesi i cui governi si confrontano o si scontrano. La pace imposta con la forza delle armi non resiste alle istanze di libertà della popolazione. Il tentativo di sviluppare processi di pace attraverso legami economico-commerciali ha conseguito un eccezionale successo in Europa attraverso il percorso della CECA e, poi, della CEE e della UE, ma è fallito nei rapporti dell’Occidente con la Russia e con la Cina. Questi esempi fanno sorgere ovviamente la domanda perché fra Francia e Germania, tradizionali nemici, il fattore economico ha creato un solido legame, mentre negli altri casi, pur essendovi fra l’Europa occidentale da un lato, e  Russia e Cina dall’altro, economie complementari, ha prevalso la contrapposizione politica. Credo fermamente che la causa vada cercata nel fattore culturale. Ecco quindi che la cooperazione universitaria, nelle sue diverse articolazioni, trova il suo spazio. Vediamo proprio in questi giorni studenti di alcuni atenei italiani protestare contro legami con le università israeliane. E’ questo un esempio di anti-cultura e di anti-politica. I giovani israeliani, che hanno manifestato contro i soprusi del loro governo, hanno bisogno dell’aiuto dei loro coetanei italiani ed europei. Quelle istituzioni culturali italiane che hanno disdetto concerti di pianisti russi e corsi di letteratura russa contestando l’invasione dell’Ucraina hanno tradito, seppure in perfetta buona fede, la loro missione culturale. Il dialogo è il primo passo della diplomazia culturale, per poi costruire tolleranza, comprensione e, auspicabilmente, amicizie.

Lei ha avuto una notevole esperienza scolastica e lavorativa all’estero. Oggi, molti studenti viaggiano per formarsi, e in generale una formazione varia viene ritenuta fondamentale per il concorso diplomatico. Le pongo dunque questa domanda: quali sono i suoi consigli per quegli studenti che vorrebbero intraprendere la carriera diplomatica?
Chi vuole intraprendere quest’avventura deve avere grande entusiasmo, e, soprattutto, la volontà di capire, di conoscere, di esplorare culturalmente i tanti Paesi in cui opera. Senza queste caratteristiche si potrà essere un ottimo analista politico, uno storico, un letterato o un intellettuale, uno che opera dalla scrivania di casa sua, ma non un diplomatico.

Occorre una certa dose di fantasia, per affrontare situazioni che i manuali non hanno previsto. E ancora, è bene avere elasticità mentale, spirito di adattamento e, soprattutto, è indispensabile eliminare dalla propria fantasia l’immagine del “cioccolatino Ferrero”, della bella vita sociale. Certe pagine di storia ci proiettano una diplomazia elegante che si svolge fra ricevimenti sontuosi, tralasciando che in verità quelle sono occasioni di lavoro. Incontri in saloni lussuosi o nel modesto appartamentino di un dissidente o nelle carceri per visitare un connazionale sono tutti momenti di questo mestiere, che presenta una varietà di sfaccettature. 

Ciò detto, riconosciamo con la dovuta umiltà che ben pochi diplomatici riescono a possedere tutte queste qualità, per non menzionarne un’altra, anch’essa importante, il “sense of humour”.

Il concorso è difficile, lo sappiamo e guai a scoraggiarsi se si è sfortunati. La varietà delle materie richieste torneranno utili nel corso degli anni avvenire, a volte anche per distanziarsi dalle indicazioni teoriche. 

Il bello della Carriera è anche la varietà delle funzioni ed è importante costruirsi un bagaglio di diverse esperienze perché quando si arriva alle posizioni apicali bisogna saper valutare i diversi fattori. L’analisi politica è la base e la sintesi del mestiere; la componente economica è decisiva in tante circostanze, ma va valutata nel contesto generale, mentre la parte consolare è la più umana. L’Italia è culturalmente una grande potenza, ma purtroppo non sempre valorizza questo suo patrimonio. Vi sono poi altre esperienze professionali, come i contatti con la stampa e con il mondo politico italiano. Non si può rappresentare il proprio Paese se non si ha conoscenza delle forze che operano in Parlamento, nella società civile e che ne influenzano il processo decisionale.

Concludendo: io lo rifarei subito e con grande entusiasmo

Indro Furlanetto

Studente del corso triennale in Studi Internazionali. Appassionato di relazioni internazionali, geopolitica e storia.

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