Che cos’è la metafisica?

Che cos’è la metafisica? Che cosa significa questa angosciante e meravigliosa parola «davanti alla quale ognuno, più o meno, si affretta a fuggire come davanti a un appestato» (Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Chi pensa astrattamente?, Edizioni ETS, Pisa 2014, p. 13)? La metafisica è ancora la «regina delle scienze» o è diventata piuttosto la «regina della plebaglia» (le espressioni sono di Kant)? Questa parola, immobile fra l’astratto del cielo e il concreto della terra, è un flatus voci, cioè una mera espressione della voce, un vuoto significare — paradosso dei paradossi — oppure è una cosa o, per meglio dire, la cosa? 

La parola metafisica (dal greco μετὰ τὰ φυσικά) proviene dalla tradizionale catalogazione dei libri di Aristotele operata dal filosofo del I secolo a. C. Andronico di Rodi, il quale dopo la catalogazione dei libri aristotelici sulla natura, cioè sulla fisica (dal greco τὰ φυσικά), collocava quelli sulla «filosofia prima (πρώτη φιλοσοφία)» o scienza dell’«ente in quanto ente (ὂν ᾗ ὄν)» (Aristotele, Metafisica, Γ, I, 1003 a 21-26). In questo senso, siccome i libri sulla metafisica furono collocati dopo quelli sulla fisica, sia nel senso dell’ordine di pubblicazione che in quello di importanza, la metafisica significherebbe le cose che stanno dopo le cose della fisica. Tuttavia, come giustamente mostra Giovanni Reale (e già Heidegger), la ricostruzione logica e cronologica dell’etimologia della parola «metafisica» considera soltanto il significato temporale del suffisso μετά, che, stando a Reale, è ininfluente o, comunque, marginale dato che la dottrina aristotelica si occupa primariamente del principio di unità dell’essere che, per l’appunto, è «oltre» la fisica. Anche e soprattutto perciò, per Reale, la parola «metafisica» si deve leggere come «ciò che oltrepassa la fisica», cioè come «ciò che oltrepassa la natura» (Giovanni Reale, La filosofia antica, Jaca Book 1992, pp. 19-20). A questo punto però sarebbe cosa buona e giusta comprendere se questo stesso oltrepassamento (Überwindung) inizia comunque nel concreto per poi finire nell’astratto o se, invece, inizia (per poi ri-finirci) già nell’astratto. In questa sede, sebbene per ogni pensatore l’astrattezza dell’astratto sia (e rimanga) sempre un’eterna tentazione, la parola di Heidegger illuminerà piuttosto una prospettiva di «metafisica concreta» (l’espressione è di Florenskij). Quest’ultimo punto è già testimoniato dall’incipit della sua Prolusione inaugurale dal titolo  Che cos’è metafisica? (Was ist der Metaphysik?) pronunciata il 24 luglio 1929 nell’Aula Magna dell’Università di Friburgo. Dice infatti Heidegger: «Dalla domanda [che cos’è metafisica?]  ci si attende un discorso sulla metafisica. Noi vi rinunciamo e discutiamo invece una questione metafisica determinata. In questo modo, a quanto pare, entriamo direttamente all’interno della metafisica e solo così le offriamo la giusta possibilità di presentarsi da sé» (Martin Heidegger, Che cos’è metafisica?, Adelphi, Milano 2001, p. 37). La scienza, infatti, per Heidegger, si distingue per la caratteristica di lasciare «esplicitamente e unicamente alla cosa stessa la prima e l’ultima parola» (Martin Heidegger, Che cos’è metafisica?, Adelphi, Milano 2001, p. 39). In questo senso si può dunque dire che la metafisica di Heidegger è una metafisica concreta: noi, infatti, enti fra gli altri enti, essendoci non dobbiamo fare nient’altro che testimoniare l’ente «in ciò che è e per come è» (Martin Heidegger, Che cos’è metafisica?, Adelphi, Milano 2001, p. 40) perché il nostro esser-ci (Dasein) essendo già nella radura della voce silenziosa dell’essere è già a sua volta metafisica (Platone, Fedro, 279a). A questo proposito tuttavia è necessario ora avvicinarsi ulteriormente a questo discorso heideggeriano, in particolar modo quest’ultimo struttura la sua Prolusione inaugurale secondo il seguente schema tripartito: 1. Lo svolgimento di una domandare metafisico; 2. L’elaborazione della domanda; 3. La risposta alla domanda. 1. L’autore di Essere e Tempo (Sein und Zeit) con la prima sezione della sua Prolusione, una volta mostrato che le scienze si occupano principalmente di ciò che vi è di essenziale in tutte le cose, cioè «dell’ente stesso — e [di] nient’altro» (Martin Heidegger, Che cos’è metafisica?, Adelphi, Milano 2001, p. 40), si interroga poi fin da principio sulla questione del ni-ente. Dice infatti Heidegger: «Che ne è di questo Niente? È forse un caso che noi ci esprimiamo così con tanta naturalezza? È forse solo un modo di dire e nient’altro? Ma allora perché ci preoccupiamo di questo Niente? […] abbandonando il Niente in questo modo, non finiamo forse proprio per ammetterlo? […]. Che cosa può essere per la scienza il Niente se non una mostruosità e una fantasticheria? […]. La scienza [infatti] non vuol saperne del Niente. Eppure è altrettanto certo che dove cerca di esprimere la sua propria essenza, essa chiama in aiuto il Niente. Ciò che rifiuta è ad un tempo ciò che essa reclama. Quale duplice essenza [allora] si rivela qui? […]. La domanda esige soltanto di essere formulata nei suoi termini propri: Che ne è del Niente?» (Martin Heidegger, Che cos’è metafisica?, Adelphi, Milano 2001, p. 41-42). Insomma la domanda di questa prima (nonché dell’ultima) sezione della Prolusione è la domanda metafisica par excellence che, come nota giustamente Franco Volpi, è «già presente in Sigieri di Bramante, [è] formulata esplicitamente da Leibniz [e] ripresa da Schelling» (Franco Volpi, Introduzione, in Che cos’è metafisica?, Adelphi, Milano 2001, p. 33): perché l’essere piuttosto che il nulla? Per Heidegger infatti è contro «di esso [cioè contro il nulla] [che] la scienza deve ora ribadire la sua serietà e il suo rigore, deve affermare [cioè] che ciò che le importa è unicamente l’ente» (Martin Heidegger, Che cos’è metafisica?, Adelphi, Milano 2001, p. 41) perché solo e soltanto se affronta la vexata quaestio metafisica la scienza può riconquistare il suo compito essenziale, che non consiste nel raccoglimento e nell’ordinamento delle conoscenze ma piuttosto nel disvelamento della verità della natura, della storia, dell’«albero della filosofia» (l’espressione è di Heidegger ma già cartesiana). 2. In questa prospettiva Heidegger con la seconda sezione della Prolusione svolge l’elaborazione della domanda che, a suo dire, «deve portarci nella situazione dalla quale è possibile scorgere la risposta oppure l’impossibilità della risposta» (Martin Heidegger, Che cos’è metafisica?, Adelphi, Milano 2001, p. 42). Se, infatti, «la logica è l’istanza suprema, l’intelletto il mezzo e il pensiero la via per cogliere originariamente il Niente»  (Martin Heidegger, Che cos’è metafisica?, Adelphi, Milano 2001, pp. 43-44) la risposta è semplicemente impossibile «secondo l’insegnamento sovrano e mai intaccato della “logica”» (Martin Heidegger, Che cos’è metafisica?, Adelphi, Milano 2001, p. 44) che testimonia il fatto che rispetto al niente «domanda e risposta sono ugualmente un controsenso» (Martin Heidegger, Che cos’è metafisica?, Adelphi, Milano 2001, p. 43). Dice infatti Heidegger: «La regola fondamentale del pensiero in generale, cui comunemente ci si richiama, ossia il principio di non contraddizione, la “logica” generale, sopprime la questione, perché il pensiero, che è essenzialmente sempre pensiero di qualcosa, qui, come pensiero del Niente, dovrebbe agire contro la sua propria essenza» (Martin Heidegger, Che cos’è metafisica?, Adelphi, Milano 2001, p. 43). Tuttavia — e qui sta il tentativo titanico di Heidegger — la risposta è possibile se la piramide logica-intelletto-pensiero si ribalta o, per meglio dire, si annulla, cioè se si dimostra che la negazione o, il che è lo stesso, l’intelletto c’è perché c’è innanzitutto e soprattutto il Niente. Dice infatti Heidegger: «C’è il Niente solo perché c’è il “non”, cioè la negazione? Oppure è vero il contrario, ossia che c’è la negazione e il “non” solo perché c’è il Niente? Questo non è ancora stato deciso, anzi, non è mai stata neppure sollevata esplicitamente la questione. Da parte nostra affermiamo che il Niente è più originario del “non” e della negazione. Se questa tesi è giusta, allora la possibilità della negazione, come operazione dell’intelletto, e quindi l’intelletto stesso dipendono in certo modo dal Niente» (Martin Heidegger, Che cos’è metafisica?, Adelphi, Milano 2001, pp. 44-45). Dunque in questo senso Heidegger definisce il Ni-ente, cioè l’In-definibile, come «la negazione dell’università dell’ente, il puro e semplice Non-ente» (Martin Heidegger, Che cos’è metafisica?, Adelphi, Milano 2001, p. 44) o, comunque, come «la negazione completa della totalità dell’ente» (Martin Heidegger, Che cos’è metafisica?, Adelphi, Milano 2001, p. 47). Ma il problema ri-nasce nuovamente allorquando Heidegger vuole trovare ciò che per sua stessa natura non si può trovare poiché qui si accorge che l’intelletto ancora una volta irretisce il cercare: «c’è in fondo un cercare senza quella anticipazione [cioè quella anticipazione secondo la quale per trovare qualcosa dobbiamo già sapere che c’è], un cercare cui corrisponde un puro trovare?» (Martin Heidegger, Che cos’è metafisica?, Adelphi, Milano 2001, p. 47). Per dirla altrimenti, c’è una qualche possibilità che la totalità del ni-ente sia prioritaria — prioritaria nel senso che la precede determinandola — alla totalità dell’ente? No. Dunque, per Heidegger, diventa necessario testimoniare o, per meglio dire, legittimare la ricerca del nulla solo e soltanto attraverso un’esperienza del Niente. Anche e soprattutto perciò Heidegger distinguendo fra il cogliere la totalità dell’ente in sé e il sentirsi in mezzo all’ente nella sua totalità mostra che i sentimenti disvelano l’ente proprio nella sua totalità. In particolar modo soffermandosi sulla noia e sulla gioia come sentimenti testimonianti la totalità dell’essente e, per converso, sull’angoscia come solo e unico sentimento testimoniante la totalità del ni-ente. L’angoscia, infatti, per Heidegger, non è né ansia né paura, ché l’ansia e la paura sono sempre l’ansia e la paura di qualcosa, mentre l’angoscia non è mai angoscia di ma piuttosto angoscia per, in particolar modo angoscia per qualcosa che è il non-qualcosa: l’uomo, in questo senso, è non a caso il «luogotenente del Niente» (l’espressione è di Heidegger). Anche e sopratutto perciò, per Heidegger, «l’angoscia rivela il Niente» (Martin Heidegger, Che cos’è metafisica?, Adelphi, Milano 2001, p. 50), cioè rivela ciò che non si rivela mozzandoci la parola per dire qualcosa, quel qualcosa o, per meglio dire, quell’ente che dunque si dilegua mostrandoci assieme il ni-ente. Dice infatti Heidegger: «Il Niente si manifesta piuttosto espressamente con l’ente e nell’ente in quanto questo si dilegua nella sua totalità» (Martin Heidegger, Che cos’è metafisica?, Adelphi, Milano 2001, p. 50). 3. A questo punto per Heidegger con la terza sezione della Prolusione è il momento di rispondere alla domanda — a quella domanda che, come ricorderà col Poscritto del 1943, «rimane [sempre] un problema» (Martin Heidegger, Che cos’è metafisica?, Adelphi, Milano 2001, p. 71) — cominciando col mostrare l’essenza del Niente, cioè la nientificazione (Nichtung). Ma, che cos’è la nientificazione? «È il Niente stesso che nientifica» (Martin Heidegger, Che cos’è metafisica?, Adelphi, Milano 2001, p. 54), il quale, per Heidegger,  «porta l’esser-ci davanti all’ente come tale» (Martin Heidegger, Che cos’è metafisica?, Adelphi, Milano 2001, p. 55). Che cosa significa allora esserci? «Esser-ci significa essere tenuto immerso nel Niente» (Martin Heidegger, Che cos’è metafisica?, Adelphi, Milano 2001, p. 54), cioè posto (Stelle) nella località della verità dell’essere — ché, infatti, se «non si tenesse immerso fin dall’inizio nel Niente, non potrebbe mai rapportarsi all’ente e perciò neanche a se stesso» (Martin Heidegger, Che cos’è metafisica?, Adelphi, Milano 2001, p. 54) pagando il fio con la privazione della libertà, cioè con la privazione dell’essere-se-stesso. Esserci dunque non solo come coscienza (Bewusstsein) o come autocoscienza (Selbstbewusstsein) ma anche e soprattutto come essere-presente (anwesen) nella verità dell’essere. A questo punto dunque si può dire che se per Parmenide «lo stesso è pensare ed essere (τὸ γὰρ αὐτὸ νοεῖν ἐστίν τε καὶ εἶναι)» (Parmenide, DK 28 B 3); per Heidegger, invece, il Ni-ente e l’Essere sono la stessa cosa. La metafisica è quindi heideggerianamente manifestazione della luce (Licht) dell’Essere in quanto Essere che avviene però attraverso il suo oscuro nascondimento, cioè attraverso il suo stesso essere Ni-ente. Dice infatti Heidegger mostrando così la risposta alla domanda «che cos’è metafisica?»: «Metafisica è il domandare oltre l’ente, per ritornare a comprenderlo come tale e nella sua totalità» (Martin Heidegger, Che cos’è metafisica?, Adelphi, Milano 2001, p. 61). In questo senso l’Essere è un Ni-ente, cioè un non-ente o, per meglio dire, non un semplice ente, il quale però si può manifestare solo e soltanto attraverso la differenza, cioè solo e soltanto attraverso gli enti che assieme lo rivelano e lo occultano. Se, per esempio, noi consideriamo la tenda di una finestra si potrebbe dire che, per Heidegger, il Ni-ente non è la negazione dell’altro per affermare sé, nel senso che la tenda essendo-ci non nega lo spettacolo al di là della finestra, ma piuttosto il Ni-ente è la ritrazione di sè per mostrare l’altro, nel senso che la tenda ritraendosi mostra lo spettacolo al di là della finestra e parimenti mostra la stanza illuminata. Perciò dice Heidegger mostrando anche la risposta alla domanda «che cos’è il niente?»: «Si è così ottenuta la risposta alla questione del Niente. Il Niente non è un oggetto, né in generale un ente. Il Niente non si presenta per sé, né accanto all’ente a cui per così dire inerisce. Il Niente è ciò che rende possibile la manifestatezza dell’ente come tale per l’esserci umano. Il Niente non dà solo il concetto opposto a quello di ente, ma appartiene originariamente all’essere essenziale (Wesen) stesso. Nell’essere dell’ente avviene il nientificare del Niente» (Martin Heidegger, Che cos’è metafisica?, Adelphi, Milano 2001, p. 56). Tuttavia — e qui sta il nodo di gordio — se, come dice Heidegger, «l’idea della “logica” stessa [cioè l’interpretazione tradizionale del pensiero] si dissolve nel vortice di un domandare più originario» (Martin Heidegger, Che cos’è metafisica?, Adelphi, Milano 2001, p. 58) perché «più profonda della semplice adeguatezza della negazione logica è la durezza dell’agire ostile e l’asprezza del detestare. Più responsabili sono il dolore del fallimento e l’inesorabilità del proibire. Più pesante è l’amarezza della rinuncia» (Martin Heidegger, Che cos’è metafisica?, Adelphi, Milano 2001, p. 59). Allora non si capisce come possa e debba essere giustificata la posizione parimenti heideggeriana secondo la quale essere e niente è verità (Άλήθεια), è evento (Ereignis), è apertura (Lichtung) in quanto non è un oggetto (Gegenstand), non è un essente (Seiendes), non è qualcosa di nullo (etwas Nichtigkeit). Quest’ultima posizione, infatti, piuttosto che oltrepassare «la legittimità del dominio della “logica” nella metafisica» (Martin Heidegger, Che cos’è metafisica?, Adelphi, Milano 2001, p. 63), cioè piuttosto che oltrepassare la “logica” calcolante per toccare con mano la radura della verità, sembra invece confermare quella stessa “logica” in quanto è la logica di identità-non contraddizione che dice che una cosa è quello che è in quanto nega la sua negazione. Insomma, per dirla altrimenti, sia che si dica con Heidegger che l’ente è e che, invece, l’essere si dà, comunque si sta riconoscendo con Severino il fatto che tanto l’ente quanto l’essere (il Niente heideggeriano) non sono nulla di nullo, cioè si sta comunque riconoscendo in qualche modo l’identità comune alla loro stessa differenza: le cose dunque, in questo senso, non esistono perché le conosciamo, come vorrebbe Heidegger, ma piuttosto, come ritiene Severino, le conosciamo perché esistono. In ogni caso, la Prolusione heideggeriana è e rimane comunque un passo fondamentale per la metafisica, un passo che riprende e rinnova la concezione risalente già ad Aristotele: riprende perché secondo la filosofia aristotelica, come secondo quella heideggeriana, la filosofia è anzitutto ontologia — sul rapporto fra metafisica e ontologia, in particolar modo sulla priorità del che cosa c’è (an sit) sul che cos’è (quid sit), cioè sulla priorità dell’ontologia sulla metafisica, si rimanda fra gli altri studi a Il mondo messo a fuoco del professor Varzi —, e rinnova perché quella di Heidegger si può in definitiva “definire” come fa Heidegger stesso nell’Introduzione del 1949 un’«ontoteologia» (Martin Heidegger, Che cos’è metafisica?, Adelphi, Milano 2001, p. 110). In questo senso, come dice magistralmente Volpi, «Heidegger considera infatti la metafisica non in termini storiografici in base a come essa è stata via via concepita, bensì in base a ciò che la fa essere tale nella sua essenza: come domanda-guida relativa all’ente in quanto ente [e non, invece, all’essere in quanto essere], che non chiede di un qualche ambito o aspetto particolare dell’ente, ma di ciò che l’ente è nel suo essere. Dal che Heidegger ricava la sua nota ricostruzione della struttura della metafisica occidentale, la quale, da Platone e Aristotele fino a Nietzsche, avrebbe risposto alla domanda-guida indicando ogni volta diversi modi in cui l’ente si presenta nel sua essere: il modo d’essere di ciò che è per natura (φύσει όντα, entia naturalia) e quello di ciò che è in virtù della tecnica (ποιουμενα, artefacta), ciò che è per sé e ciò che è mediante altro, l’assoluto e il relativo, l’infinito e il finito, ciò che è creatore e ciò che è creato, spirito e natura, soggetto e oggetto, ecc. [dal ex nihilo nihil fit dei greci al ex nihilo fit – ens creatum dei cristiani fino poi al ens et nihil convertuntur di hegeliana memoria]» (Franco Volpi, Introduzione, in Che cos’è metafisica?, Adelphi, Milano 2001, pp. 16-17). In questo senso si può dunque dire che la riproposizione heideggeriana del problema metafisico rappresenti in qualche modo anche una critica a Husserl. Infatti, se l’interpretazione heideggeriana del compito del filosofo è un’interpretazione «trascendental-ontologica» quella husserliana, invece, è «trascendental-fenomenologica» (le espressioni sono di Volpi), cioè laddove la seconda ritiene che l’interrogazione filosofica si produca mediante un atto intellettivo dell’uomo (l’epoché); la prima, invece, ritiene che la filosofia accada nella conversione di tutta l’anima (περιαγωγή όλης τής ψυχής), cioè nell’esserci della cosa, nel toccare l’angoscia dell’esistenza, nel domandare dell’ente in quanto esserci. Quest’ultimo punto è quello che Carnap ritiene il problema delle metafisiche passate e future, nel senso che «da una parte esse si servono di concetti che non hanno alcun riferimento, ossia alcun significato reale, passibile di verifica empirica: dall’altra costruiscono pseudo-proposizioni che contravvengono alle regole della sintassi» (Franco Volpi, Introduzione, in Che cos’è metafisica?, Adelphi, Milano 2001, p. 22). In questo senso i concetti heideggeriani di «essere» (Sein) e «angoscia» (Angst) per Carnap risultano esempi paradigmatici di nonsenso metafisico e di uso scorretto del linguaggio. Perciò dice Volpi: «Carnap e Heidegger obbediscono a sue diverse concezioni della filosofia [contemporanea]: il primo intende stabilire le condizioni logiche della validità del discorso filosofico; Heidegger, invece, è interessato all’apertura di orizzonti di senso» (Franco Volpi, Introduzione, in Che cos’è metafisica?, Adelphi, Milano 2001, pp. 29-30). Questa apertura verso gli orizzonti di senso per Wittgenstein,  invece, costituisce  l’avventarsi e l’avventurarsi «contro i limiti del linguaggio»  (Ludwig Wittgenstein, Lezioni e conversazioni, Adelphi, Milano 1967, p. 12) o, se si preferisce, «contro le pareti della nostra gabbia» (Ludwig Wittgenstein, Lezioni e conversazioni, Adelphi, Milano 1967, p. 18), costituisce cioè il paradosso impossibile eppure irrinunciabile di dire l’indicibile, che infondo è il compito del filosofo il dire l’essere — il dire cioè che l’ente è —, come nominare il sacro è quello del poeta, e che, infatti, ora come allora, è e rimane per ogni uomo la «meraviglia di tutte le meraviglie» (Martin Heidegger, Che cos’è metafisica?, Adelphi, Milano 2001, p. 78).

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