Che cos’è la struttura originaria?

Che cosa è la struttura originaria? Che cosa significa la-struttura-originaria? Qual è il senso primo e ultimo della cosa? Qual è, per dirla altrimenti, il principio, il fondamento, la struttura appunto, di ogni cosa? Perché è «necessario il dire e il pensare che l’essere sia» (Parmenide, DK 6, 1)? Perché, insomma, in generale è l’essere e non piuttosto il nulla?

«La struttura originaria è l’essenza del fondamento. In questo senso, è la struttura apodittica del sapere – l’ἀρχή τῆς γνώσεως – e cioè lo strutturarsi della principalità, o dell’immediatezza» (Emanuele Severino, La struttura originaria, Adelphi, Milano 1981, p. 107). La sta dunque a significare che essa, cioè la struttura, non può non essere che una sola, ché, infatti, non possono esistere, pena il rischio di incorrere nel regressus in infinitum, due strutture, due principi, due unità che, a loro volta, procederebbero poi comunque da una sola e unica struttura, da un solo e unico principio, da una sola e unica unità, unità della e nella molteplicità. Struttura, invece, sta qui a significare simpliciter il fondamento del giudizio originario, il principio cioè della verità dell’essere in quanto essere, la struttura stessa della cosa in quanto cosa. Originaria, infine, sta a significare che la struttura in quanto struttura originaria — ἀρχή τῆς γνώσεως — è per l’appunto la-struttura-originaria, cioè il principio primo e ultimo della conoscenza o, per meglio dire, della verità, luogo in cui l’uomo è già «in patria» (l’espressione è di Severino). In questo senso, allora, «il discorso non verte, per dir così su di un segmento, ma su di un punto logico; onde tutti gli elementi dell’esposizione sono, sin dall’inizio, egualmente richiesti» (Emanuele Severino, La struttura originaria, Adelphi, Milano 1981, pp. 105-106). Quest’ultima frase contenuta già nell’avvertenza dell’opus magnus di Severino presenta già la struttura de La struttura originaria: «il discorso», infatti, è propriamente il λόγος dell’essere fondato sulla logica incontrovertibile del principio di non contraddizione —  «su di un punto logico» dice infatti Severino. Qui, cioè su questo punto logico, che mostra senza dimostrare — perché autoevidente — che «l’essere è, [e che parimenti] il non-essere è nulla (ἔστι γὰρ εἶναι, / μηδὲν δ᾽οὐκ ἔστιν)» (Parmenide, DK 6, 1-2), in quanto se l’essere è non può non essere e parimenti se il non essere non è non può essere, è «onde» non un unico e solo elemento, ma «tutti gli elementi», cioè tutti gli sviluppi del pensiero, tutti i passaggi del discorso — che già a questo punto è e non può non essere che un discorso intorno alla struttura originaria — convergono «sin dall’inizio», cioè sin dall’αρχή o, come dice Severino, «sono egualmente richiesti» secondo necessità, cioè secondo il more geometrico del fondamento della contraddizione. Non a caso dice Severino: «La struttura originaria (1958) rimane ancora oggi il terreno dove tutti i miei scritti ricevono il senso che è loro proprio» (Emanuele Severino, La struttura originaria, Adelphi, Milano 1981, p. 13). A questa struttura convengono allora perfettamente le parole di Schopenhauer, che, non a caso, fu uno dei primi incontri (e scontri) filosofici dello stesso Severino, contenute nella prefazione alla prima edizione de I due problemi fondamentali dell’etica (1841) allorquando Schopenhauer dice: «[…] la mia filosofia è come Tebe dalle cento porte: vi si può entrare da tutte le parti e arrivare, attraverso ognuna, per via diretta fino al centro» (Arthur Schopenhauer, I due problemi dell’etica, Bompiani, Milano 2019, p. 55). Questo a mostrare ancora una volta che come dice Novalis: «Quanti meno principi fondamentali, tanto più importante la scienza» (Novalis, Polline, in Opera filosofica, I, Einaudi, Torino 1993, p. 399). La frase di Severino, infatti, come quella di Qohelet, apre il libro per darne, in partenza, la conclusione. Nel senso che tutto lo sviluppo intermedio, cioè La struttura originaria stessa, costituisce un commento di questa tanto semplice quanto complessa sentenza. Fuori dalla quale per altro non può esserci nulla dato che fuori dalla verità «l’affermazione non sa escludere la negazione, e questa non sa escludere quella» (Emanuele Severino, La struttura originaria, Adelphi, Milano 1981, p. 135), ma è solo e soltanto nell’orizzonte della verità che l’affermazione può escludere la negazione e che parimenti la negazione può, senza farlo mai, escludere l’affermazione. In questo senso dice infatti Severino: «Alla struttura originaria compete – prescindendo qui dalle precisazioni che su questo punto dovranno essere apportate, quanto Aristotele rilevava a proposito del principio di non contraddizione: che la sua stessa negazione, per tenersi terma come tale, lo deve presupporre. Si che ad un tempo lo nega e lo afferma: lo nega in actu signato, e lo afferma in actu exercito; e quindi, proprio perché insieme lo afferma e lo nega, non riesce a negarlo»  (Emanuele Severino, La struttura originaria, Adelphi, Milano 1981, p. 107). La struttura originaria è dunque ciò che tutti sanno e non sanno essere la struttura originaria, il fondamento del fondamento, cioè il fondamento sine qua non non si può dare nessuna parte — chè esso è propriamente il tutto oltre le parti. Chi, infatti, afferma che A=A e chi, viceversa, vuole negare che A=A  accetta, più o meno consapevolmente, la prassi del fondamento della contraddittorietà, che sia appunto per affermare o che, viceversa, sia per negare la coincidenza, cioè per affermare la non-coincidenza. Tutti i possibili modi di prendere posizione rispetto al fondamento, meno uno, il quale, si capisce, è la struttura originaria stessa, cioè il fondamento della contraddizione, secondo cui l’essere è e non può non essere e il non essere non è e non può essere, costituiscono, in questo senso, altrettante negazioni del fondamento. Perciò dice Severino: «Chi domandasse che significato ha l’autosignificazione originaria, non si potrebbe che invitarlo, sfruttando il suggerimento di Aristotele, a dare un significato alla sua domanda. Se la domanda intende valere come significante, il suo significare è in ogni modo da ricondurre all’originarietà del significare»  (Emanuele Severino, La struttura originaria, Adelphi, Milano 1981, p. 139).  Alla struttura originaria compete insomma quanto Zenone rilevava a proposito del paradosso di Achille e della tartaruga: che Achille (il lettore de La struttura originaria), per quanto profondo sia il suo sforzo non potrà mai raggiungere la tartaruga (l’autore de La struttura originaria) qualora questa possegga un vantaggio minimo nel caso della tartaruga eppure già massimo nel caso de La struttura originaria. A questo punto dunque il negatore è sempre e comunque il ritardatario, cioè colui che chiude la stalle quando i buoi sono già scappati, in contrasto con l’unica e sola affermazione dell’affermatore, che in quanto unica e sola affermazione possibile è necessariamente l’unica e sola possibilità di dire e di pensare qualcosa o, per meglio dire, è l’unica e sola possibilità di dire e di pensare. Il frontone di questo castello, che è La Struttura originaria, parafrasando un passo di Jacques il fatalista di Diderot, avvertiva: «Eri già qui prima di entrare e quando esci non saprai che resti». Così, infatti, una volta che la confutazione del lettore cade nella rete della contraddizione in quell’«ora senza voce» (l’espressione è di Nietzsche), nella quale cioè l’unica e sola voce necessaria — la voce dell’essere — è (apparentemente) morta, ecco che, improvvisamente, risuona la stessa voce (apparentemente) morta che afferma con riso tagliente: «Te lo avevo detto!». In questo senso noi, non essendo e non potendo essere altro da noi, non siamo e non possiamo essere altro dalla struttura originaria ma piuttosto siamo già in tutto e per tutto la-struttura-originaria. In definitiva, allora, ogni cosa che, in quanto cosa, è, non può non essere parte del tutto nel tutto, in quel tutto che è l’orizzonte della verità, cioè la patria, il «fiore» (l’espressione è di Novalis), il reame onnipresente e onniavvolgente dell’uomo. A questa constatazione «corrisponde un certo affannoso e molto zelante lavorio per sollevare  [comunque] il genere umano dall’abbrutimento nel sensibile, nel volgare e nel singolo, e per indirizzarne lo sguardo alle stelle; quasi che gli uomini, del tutto obliosi del divino, siano sul punto di appagarsi, come i vermi, di polvere e d’acqua» (Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Fenomenologia dello Spirito, I, La Nuova Italia, Firenze, 1973, p. 6) e non, invece, come i re, della loro regalità, della loro eterna regalità. In questa prospettiva se per Novalis: «In noi, o in nessun luogo è l’eternità» (Novalis, Polline, in Opera filosofica, I, Einaudi, Torino 1993, p. 363); per Severino, invece, tutto è eterno — «da Dio fino al granello di sabbia» (Martin Heidegger, Che cos’è metafisica?, Adelphi, Milano 2001, p. 102). Nessuna proposizione nella storia del pensiero occidentale è assieme così evidente e parimenti così contro-evidente. Talvolta però, come dice Bodei, «proprio ciò che è noto è il meno conosciuto, e bisogna saperlo vedere per conoscerlo; ma saper vedere è imparare, e imparare a sua volta staccarsi dal noto e dai suoi pregiudizi. Cosa c’è più noto della particella è, che usiamo quotidianamente? Eppure, sono innumerevoli i nodi di pensiero che si celano in essa: […]» (Remo Bodei, La civetta e la talpa. Sistema ed epoca in Hegel, Il Mulino, Bologna 2021, pp. 161-162). Questo infine Severino lo sapeva perfettamente, sebbene lo stesso non si possa dire per molti dei suoi detrattori e parimenti per moltissimi dei suoi ammiratori.Tuttavia, in questa sede, a noi è sembrato necessario soffermarsi sul finire di questa piccola grande avventura editoriale, anche solo per un attimo, sull’orlo dell’abisso o, per meglio dire, sulla superficie del cielo, per immergersi d’ora in avanti nella pienezza e nella fissità del firmamento (dal latino firmare «tener saldo») contenuto in quel sacro e divino santuario (άδυτος) che è La struttura originaria di Emanuele Severino.

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