Il macigno del debito pubblico statunitense
In una lettera inviata al Congresso il primo maggio 2023, la Segretaria al Tesoro Janet Yellen comunica un’allarmante realtà: secondo le stime più recenti, gli Stati Uniti non sarebbero in grado di soddisfare gli obblighi di pagamento sui Titoli di Stato in scadenza a giugno dello stesso anno. Nel comunicato, Yellen sollecita il Congresso a innalzare o sospendere il limite del debito federale al fine di consentire il rifinanziamento necessario a mantenere la stabilità economica del Paese. In altre parole, Yellen ha chiesto un intervento per scongiurare il rischio di un default finanziario degli Stati Uniti.
Il Congresso è stato quindi costretto ad affrontare il delicato tema del limite del debito federale, definito come la quantità massima di denaro che il governo può prendere in prestito senza ulteriori autorizzazioni parlamentari per finanziare la spesa pubblica. Di conseguenza, i legislatori statunitensi hanno dovuto decidere come garantire economicamente tutti i servizi essenziali forniti dallo Stato, inclusi la difesa, le politiche sociali e gli stipendi dei dipendenti pubblici.
Dopo la diffusione della notizia, sono seguite settimane di alta tensione per l’intero territorio federale. Intensi negoziati tra Democratici e Repubblicani hanno infine portato al risultato sperato: un accordo per la sospensione temporanea del limite fino al primo gennaio 2025, permettendo così l’emissione di nuovi Titoli di Stato, i cosiddetti Treasuries. Problema risolto, dunque? Non proprio.
Il limite al debito federale è una misura che fu introdotta nel 1917 per garantire uno spazio di manovra al governo senza la necessità di passare per il Congresso su ogni singola opzione di finanziamento. L’unico limite imposto è per l’appunto quello di non oltrepassare il valore prefissato. Sebbene negli ultimi decenni la tematica sia stata un importante punto di scontro tra le forze politiche per rallentare il livello di spesa federale, tale valore è stato modificato a più riprese. Dalla sola crisi finanziaria del 2008, la soglia è stata alzata o sospesa in 21 episodi, per un aumento complessivo del debito pari al 320%.
La soluzione trovata da Democratici e Repubblicani è riuscita quindi ad attenuare temporaneamente la crisi, ma non ha affrontato adeguatamente una problematica che continua a incombere come uno spettro sulla prima economia mondiale. La crisi finanziaria del 2008, l’emergenza pandemica del 2020 e l’invasione russa dell’Ucraina nel 2022 hanno infatti portato a un sostanziale deficit nelle casse dello Stato. Questi eventi, sommati a una serie di politiche fiscali avviate durante l’amministrazione Trump, hanno innescato un trend di crescita accelerata del debito pubblico americano.
Attualmente il debito “held by the public” (ossia detenuto da singoli individui, aziende, banche e Stati stranieri) ammonta a 27,8 trilioni di dollari, pari al 99% del PIL; considerando invece il debito pubblico lordo, che include anche i bond in mano a enti e agenzie governative, la cifra raggiunge i 34 trilioni di dollari, equivalenti al 120% del PIL. Si tratta di livelli che non si vedevano nel Paese a stelle e strisce dai tempi della Seconda guerra mondiale.
Il lato preoccupante della questione è che questi numeri non sono destinati ad attenuarsi in futuro, specialmente in vista delle elezioni presidenziali del 2024. Joe Biden ha recentemente proposto un piano di bilancio di 7,4 trilioni di dollari per il 2025, il quale porterebbe il rapporto tra il debito e PIL al 100%; dall’altro lato, Trump ha promesso di rinnovare i tagli fiscali presenti durante il suo mandato, per un costo aggiuntivo di 5 trilioni di dollari nei prossimi dieci anni. In entrambe le direzioni, la prospettiva in vista è solamente quella di un aggravarsi della situazione.
Secondo le stime dell’Ufficio del Bilancio del Congresso, il rapporto debito/PIL è destinato ad arrivare al 116% nel 2034 e a raggiungere il 166% entro trent’anni, una traiettoria considerata da molti come “insostenibile”. Si può dunque comprendere come la situazione di crisi sperimentata nel maggio dell’anno scorso potrebbe facilmente ripetersi in futuro, o peggio: si potrebbe perfino arrivare al default.
Le conseguenze di un tale evento sono difficili da prevedere, ma facili da immaginare. Secondo un rapporto stilato dalla Casa Bianca, il giorno in cui gli Stati Uniti non saranno più in grado di ripagare i propri creditori (il cosiddetto “X-date”) porterebbe rapidamente a una pesante crisi nei mercati finanziari, con evidenti gravi ripercussioni sull’economia. In un tale scenario l’azionario americano, così come il settore delle obbligazioni societarie, subirebbe perdite consistenti. Ciò si tradurrebbe in una perdita della fiducia da parte di consumatori e imprese, oltre a una rapida crescita del costo del denaro. In concreto, questa crisi si esplicherebbe in una perdita di mezzo milione di posti di lavoro e una riduzione dello 0,6% del prodotto interno lordo. Nell’ipotesi peggiore di una situazione di insolvenza prolungata, si potrebbe arrivare invece fino alla perdita di 8,3 milioni di posti di lavoro e una decrescita del PIL pari al 6%.
È facile comprendere poi come una crisi così profonda negli Stati Uniti sarebbe solamente l’epicentro di un più grande terremoto socio-economico di portata globale. Data la centralità nell’economia mondiale e il ruolo del dollaro come valuta di riserva internazionale, un default statunitense innescherebbe una serie di catastrofici effetti a catena sui sistemi economici degli altri Stati.
È vero, nel corso dei 248 anni di storia del Paese questa evenienza non si è mai verificata, e il mercato dei Treasuries viene considerato tutt’oggi come uno dei più sicuri e liquidi al mondo. Tuttavia, è essenziale ricordare che anche il settore immobiliare americano veniva considerato invulnerabile fino alla crisi del 2008, e le conseguenze di quell’avvenimento sono note a tutti. Come ammonisce la legge di Murphy, “se qualcosa può andare storto, lo farà”. Vogliamo veramente correre il rischio?