Al fondo della rappresentanza politica
La politica, oggigiorno, non può fare a meno della rappresentanza. Può sembrare qualcosa di scontato, che da quando esiste lo Stato, ci sia anche la rappresentanza. Eppure – forse sorprendentemente – ci si accorge che questo è un concetto – una forma intellettuale e istituzionale – relativamente recente. La formulazione della rappresentanza viene attribuita ad Hobbes, filosofo inglese empirista e assolutista, che però ne dà una descrizione estremamente chiara a partire da una distinzione del significato di corpo. Da questo punto si sono evolute diverse scuole interpretative, ma la struttura fondamentale è rimasta pressoché invariata. Ad essere precisi, però, bisogna anche aggiungere che la rappresentanza esisteva già prima, anche se in forma diversa. Anzi, il meccanismo che sta alla base della formulazione hobbesiana trova alcune somiglianze – facciamo riferimento a quanto può essere estrapolato dallo scritto di Giuseppe Duso “Rappresentanza politica” – nel platonismo.
Innanzitutto, cerchiamo di capire cosa si cela sotto la formulazione della rappresentanza. Prendendo spunto da Hobbes, possiamo affermare che esistono due tipologie di persona – lemma da intendere col significato latino di maschera, ovvero di ciò che veniva indossato dai teatranti per farsi riconoscere come un certo personaggio. La prima è la persona naturale, ovvero colei che agisce in base al proprio volere; la seconda è la persona artificiale, ovvero colei che agisce in base al mandato di qualcun altro. Per rendere più chiara la distinzione, possiamo inquadrarla nel binomio autore-attore: l’attore è colui a cui appartengono le azioni – anche beni e parole –; l’attore è colui che mette in atto tali azioni. Nel primo caso la persona è sia l’autrice sia l’attrice, nel secondo invece è l’attrice, mentre l’autore è qualcun altro. Una volta chiarito questo punto, metà del lavoro è fatto. Per Hobbes, tralasciando alcuni punti relativi al contratto, il sovrano è il rappresentante del popolo, nella misura in cui è la persona artificiale che è attrice di azioni che appartengono ai sudditi. In questo modo ciò che dice e fa il sovrano – il grande Leviatano – non sono altro che parole e azioni dei sudditi. Per questo motivo, Hobbes non accetta nessun tipo di resistenza al potere sovrano, perché sarebbe come resistere a sé stessi.
Questa visione, però, dà vita a dei punti di frizione che è meglio sottolineare. In primo luogo, il popolo può essere visto in molteplici modi: sia come unità che viene rappresentata dal sovrano, sia come una moltitudine, da intendere o come l’insieme dei cittadini, ovvero di coloro che sono autori, oppure come l’insieme dei sudditi, ovvero di coloro che devono sottostare alle leggi poste dal sovrano – ossia, da loro stessi. In secondo luogo bisogna notare che il sovrano è libero da vincoli: egli rappresenta il popolo, senza con ciò implicare che deve sottostare alle loro volontà. È il sovrano che forma la volontà del popolo – la quale non esisterebbe altrimenti come unità, ma solo come moltitudine – e questa volontà del popolo è espressa liberamente dal sovrano stesso – i membri del popolo entrando nello Stato accettano che la loro volontà venga rappresentata. Queste due questioni sollevano numerosi problemi e aporie che nel corso dei secoli sono stati oggetto di studio e di tentativi di superamento. Nel primo caso si trova una ambiguità e contraddizione di fondo, in cui il cittadino è sia colui che vuole la legge, sia colui che la subisce, dovendo esserne vincolato, ma non è colui che la fa. Nel secondo caso, invece, emerge il fatto che il popolo non sembra poter condizionare realmente la volontà del sovrano il cui fine è di dare forma alla volontà del popolo, non quella di soddisfare le richieste provenienti da esso.
In merito a questo ultimo punto è possibile entrare più nello specifico e presentare una seconda distinzione: mandato libero e mandato imperativo. Il primo è come quello appena descritto, in cui il sovrano esprime liberamente ciò che prende il nome di volontà del popolo, in quanto suo rappresentante. Il secondo invece è ben diverso. Il sovrano ha una funzione di armonizzazione e organizzazione delle volontà espresse dalle cerchie – per usare un termine hegeliano – che non sono altro che le forme di associazioni precedenti allo Stato il quale riassorbendole ne fa il suo materiale genetico. In questo caso, perciò, il sovrano deve prendere in considerazione le richieste di queste corporazioni e congregazioni e cercare di tenerle insieme in un tutt’uno organico. È vincolato a queste espressioni di volontà e il suo ruolo è di gestire lo Stato tenendone conto.
Rappresentare ha in sé anche qualcos’altro di più profondo. Partiamo dall’origine del termine. All’inizio, rappresentare voleva dire presentare, dare o ridare evidenza di qualcosa. Evolvendosi, però, ha iniziato ad assumere anche delle sfumature diverse che sono diventate il nucleo del significato che gli attribuiamo oggi nel pensare alla rappresentanza nell’ambito del mandato libero. A studiare a fondo il significato essenziale della rappresentanza sono autori come Schmitt e Leibholz. Sono loro a presentare la differenza che c’è tra la rappresentanza nel senso privatistico e quella pubblica. Nel primo caso il rappresentante è solo un esecutore delle direttive di colui che rappresenta – assomiglia molto al mandato imperativo. Nel secondo, invece, il rappresentante è in grado di dare forma a ciò che rappresenta, ovvero deve rendere presente ciò che rappresenta, altrimenti non sussisterebbe. Quella che interessa a noi è quest’ultima. Nello specifico bisogna mostrare che la rappresentanza si fonda sull’idea che ciò che deve essere rappresentato, chiamiamolo il rappresentandum, non può sussistere prima di essere rappresentato. In altre parole, la rappresentazione non è altro che, parafrasando Schmitt, il “rendere presente l’assente riconoscendolo come tale”. Ciò vuol dire che il rappresentandum non deve essere pensato come esistente una volta rappresentato, ma, riconosciuto come assente perché di per sé trascendente, deve essere inteso solo come presente nella rappresentazione. Vediamo cosa significa con un esempio. Prendiamo ancora l’idea di popolo, della quale abbiamo già scorto aporie e difficoltà. Innanzitutto il rappresentandum è proprio l’idea di popolo stessa – ossia di una moltitudine resa unità da una volontà unica propria – che, rimanendo nella dimensione ideale, non può sussistere di per sé, ma può solo essere resa presente. Ciò che rappresenta l’idea di popolo, chiamiamolo il rappresentans, è infatti, ad esempio, il parlamento che detiene il potere legislativo – facciamo riferimento alla teoria dello Stato di Locke – e quello che risulta evidente è che il parlamento non è composto da tutto il popolo, ma solo da una parte. In questo senso il popolo non esiste di per sé, ma è solo reso presente grazie alla funzione rappresentativa riconosciuta ai parlamentari. Dunque, il rappresentans – il Parlamento – rende presente nella rappresentazione il rappresentandum – il popolo – che è assente e viene riconosciuto come tale. L’intuizione di Schmitt, però, non vuole solo essere descrittiva di queste casistiche, ma ambisce ad avere un carattere normativo, in quanto permette di affermare che tutto ciò che non ha carattere trascendente, ovvero che è assente ed essendo riconosciuto come tale può essere reso presente nella rappresentazione, non può essere rappresentato.
Le conseguenze delle idee schmittiane permettono di comprendere più a fondo l’essenza del concetto di rappresentanza, procedendo ad un’analisi non più di casistiche reali, ma della logica insita alla rappresentanza stessa. Questa caratterizzazione ricorda una teoria molto più antica, il cui confronto può ancora una volta aiutare a gettare nuova luce sul concetto. Stiamo parlando della filosofia delle idee di Platone. Il filosofo greco, infatti, propone una descrizione del rapporto che c’è tra il materiale del mondo e le idee a cui rimanda che è simile a quella della rappresentanza schmittiana. Innanzitutto, serve chiarire che la rappresentanza comporta una rappresentazione, ossia un immagine – come lo è il Parlamento per il popolo. Dunque abbiamo visto che l’immagine proposta da Schmitt rimanda a qualcosa che non è presente, rendendo ciò presente, ma senza imitarlo, piuttosto costituendolo ex novo. Per Platone, le immagini della realtà sono connesse con qualcosa che non è presente, ovvero l’idea, che risiede nell’iperuranio trascendente. Tuttavia, il rapporto non è uguale a quello proposto da Schmitt e può essere autentico o inautentico. Nel secondo caso il rapporto è tale in base al fatto che l’immagine cerca di imitare l’idea senza rispettare la distanza che c’è con l’iperuranio, non riproducendola fedelmente, ma sfruttando il distacco per darsi una forma autonomamente in base a criteri propri o per presentarsi come idea, pur non essendolo. Nel primo caso, invece, l’immagine vuole riprodurre l’idea, anche imitandola, ma nel farlo, rispetta la scissione tra realtà e iperuranio, senza tentare di “essere idea”, né volendo plasmarla allontanandosene. Questa immagine rimane perciò approssimativa e la sua funzione è quella di rimandare all’idea proponendo la via per raggiungere l’iperuranio, che rimane comunque inarrivabile. Si può notare perciò che ci sono differenze e somiglianze tra il concetto di immagine autentica di Platone e quella di immagine della rappresentanza di Schmitt. Entrambe rimandano ad un assente – come già notato –, ma la prima non pretende di mostrarlo come presente, ma accetta il distacco e tenta di imitarlo e di rimandare ad esso. La seconda, pur presupponendo l’assente come tale, dal momento che anche in questo caso sembra che l’idea da rappresentare non possa mai esistere di per sé – ma solo in quanto rappresentata –, lo rende presente e gli dà forma, nell’unico modo in cui può ottenerne una, ovvero come immagine rappresentata. Platone e Schmitt perciò condividono una serie di caratteristiche nel momento in cui si mettono a confronto in maniera appropriata.
Dalla loro comparazione emerge l’importanza che ha l’idea nel fenomeno della rappresentanza. È interessante notare che, quando si fa riferimento alle teorie più classiche come quella di Hobbes, l’idea che deve essere rappresentata non vincola il rappresentante, ma è anzi da esso e in esso creata. Se pensiamo ancora una volta a Locke, la volontà del Parlamento dà vita all’idea di volontà del popolo, che non esisterebbe se non in quanto rappresentata – tralasciamo in questa sede la critica rousseauiana relativa a questo punto. Come abbiamo già visto questo darebbe grande libertà al Parlamento, almeno che non vengano imposte delle limitazioni. Nel caso di Locke, ci sono alcuni diritti naturali – vita, libertà e proprietà – che non possono essere violati dallo Stato. Notiamo che questo limite viene posto a priori, inteso nel senso che pone un vincolo dall’inizio della fondazione e che persiste autonomamente ancora prima che lo Stato venga creato e al quale esso si deve adeguare. È possibile che questo limite venga posto anche in un altro modo, non tanto come un diritto individuale da non violare, ma piuttosto come un compito da eseguire. Qui, sembra che si torni al concetto di mandato. Anche per Locke, infatti, lo Stato deve eseguire una serie di compiti affinché il mandato non venga ritirato, uno su tutti la salvaguardia dei diritti sopracitati. Ma, anche posto che ci sia un incarico diverso, questo sarebbe deciso in maniera convenzionale, probabilmente nell’atto fondativo dello Stato o dal Parlamento. Per Kant, invece, ciò a cui deve uniformarsi l’azione dello Stato è limitata o, meglio, direzionata da un’idea, che risiede in ognuno in maniera universale. In questo caso, perciò, lo Stato, oltre a dover rispettare alcuni diritti individuali, deve indirizzare la propria azione verso la realizzazione di ciò che viene proposto dalla ragione, che per Kant ha in sé delle strutture trascendentali che sono condivise da tutti e a priori. Ognuno perciò può giudicare, in maniera universale e in un certo senso a priori, l’operato dei propri rappresentanti in base al compito che devono svolgere. L’idea, anche in questo caso, ha un ruolo particolare, fuoriuscendo dall’ambito di ciò che viene rappresentato e ponendosi come limite dell’azione della rappresentanza stessa.
Partendo dalla descrizione di Hobbes e procedendo attraverso il pensiero di diversi filosofi, abbiamo potuto categorizzare e definire il concetto di rappresentanza integralmente e con precisione. Se quanto detto finora può sembrare il frutto di una mera speculazione fine a sé stessa, proviamo ora a mostrare che non è così e che tutto questo può fungere da fondamento per una teoria politica che si tramuta in prassi e che porta a risultati concreti. Innanzitutto notiamo che, per quanto sia possibile questo esito, non è necessario che tale discettazione si trasformi in pratica. Nel caso in cui lo faccia è possibile costruire le basi per un’azione consapevole e orientata. Una chiave di lettura di quanto detto finora può essere la seguente. Il soggetto, che decide di cimentarsi in politica e ambisce a diventare un rappresentante, deve scegliere innanzitutto cosa deve rappresentare. Un primo vincolo è posto dall’ordine istituzionale in cui si trova, in particolare riguardo alle modalità della rappresentanza: può scegliere di rappresentare la regione, oppure di diventare un parlamentare etc. Un secondo vincolo deve essere invece posto da sé stesso, nella misura in cui è frutto di una propria decisione, di una propria convinzione. In questo caso il soggetto politicante potrebbe scegliere di essere rappresentante non solo di coloro che lo eleggono – sempre posto che il sistema giuridico permetta tali processi politici – ma anche di coloro che condividono una stessa idea. Anzi, potremmo dire che il soggetto è rappresentate non tanto degli elettori ma di una idea – come può essere l’uguaglianza di diritti o una certa posizione sulle energie rinnovabili – e che gli elettori, in questo modo, non scelgano la persona, ma scelgano l’idea che viene rappresentata. Se un soggetto politicante fa di questa teoria il proprio fondamento, dovrà anche aggiustare le proprie azioni e i propri obiettivi in relazione ad essa. Per quanto una tale posizione può sembrare difficile da sostenere – basti pensare al fatto che la personalità del soggetto politicante influisce certamente sulla scelta degli elettori – forse non è così lontana dalla nostra realtà. In Italia, ad esempio, quando scegliamo un partito da votare o a cui affiliarci, non lo scegliamo proprio a seconda delle idee che esso rappresenta e in cui anche noi elettori crediamo?
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