Oltre la Musica: Intervista a Ernia
Suona la sveglia. Sono le 6:00 di un altro lunedì mattina. Hai la sfortuna di abitare in un paesino di provincia o nelle periferie di una grande città, dove il numero di collegamenti del trasporto pubblico con il centro è tanto limitato quanto il numero di attività rivolte ai giovani.
Il liceo che frequenti dista un’ora. Dopo aver messo un paio di libri e una penna nello zaino, esci di casa e raggiungi la fermata dell’autobus. Piove, e nella fretta hai scordato l’ombrello. Sai che l’unico autobus disponibile, il 14, arriverà in ritardo. Nell’attesa, estrai dalla tasca del Napapijri un paio di cuffiette, apri Spotify e cominci a esplorare le ultime uscite. A un certo punto, trovi un brano che attira la tua attenzione: si chiama 68, come l’anno dei grandi movimenti di massa. Incuriosito, riproduci il pezzo, mentre finalmente arriva il bus. Ti siedi nei posti in fondo, come fai sempre a scuola, e cominci a prestare attenzione al brano. Dopo un paio di ascolti, ti accorgi che il titolo della canzone si riferisce a una linea di autobus, precisamente l’unica che passa nel quartiere milanese QT8. Soprattutto, scopri che la storia raccontata dall’artista non è poi così diversa dalla tua, e che la linea 68 di cui parla ha diversi punti in comune con la tua 14.
Diversi anni dopo, la tua vita è cambiata. Dopo il liceo, hai lasciato il tuo paesino per intraprendere un nuovo percorso universitario. Ora, l’autobus 14 è solo un lontano ricordo, e per spostarti da un punto all’altro della tua nuova città usi la metropolitana. Tra uno spostamento e l’altro, però, ripensi ai vecchi tempi del liceo e a come quegli anni siano volati via, quasi sfilando dal finestrino del bus. Sorridi, metti le cuffiette e fai partire quel brano che un tempo ti piaceva così tanto. Ai tempi eri felice, dopo tutto, e non sapevi dove saresti finito, un po’ come adesso.
In occasione dell’incontro Facciamo Eco: Pari e Dispari, tenutosi il 12 novembre al Teatro Sociale di Trento e organizzato da Fondazione Caritro, abbiamo avuto l’opportunità di scambiare due chiacchiere con Matteo Professione, in arte Ernia. Nella nostra intervista, l’artista racconta alcuni dettagli della sua esperienza da studente e degli anni precedenti al successo musicale, tra Londra e Tours. Inoltre, esploriamo insieme alcuni dei temi centrali della sua discografia.
Q. Come giornale universitario, ci piacerebbe iniziare dalla tua esperienza da studente. Ti va di raccontarci qualcosa di quel periodo?
A. Ho avuto una carriera da studente liceale pessima, era difficile fare peggio di me (ride, ndr). In università, invece, ero molto più bravo, dato che avevo scelto un percorso che mi piaceva. Studiavo Lingue e Letterature Straniere alla Statale di Milano. Mi sarebbe piaciuto lavorare come interprete simultaneo; c’era un ramo della Statale dedicato proprio a quello. Poi, con l’inizio del primo tour durante il secondo anno accademico, decisi di fermarmi. Mi trovai di fronte a una decisione importante: se avessi proseguito gli studi, avrei rischiato di perdere l’ultimo treno disponibile per la carriera musicale. Mi dissi di scegliere una cosa o l’altra e alla fine salii su quel treno, per vedere dove mi avrebbe portato. E finora ho avuto ragione, perché sono ancora qua (ride, ndr).
Q. Durante il percorso universitario, molti studenti scelgono di partire per l’Erasmus o di studiare all’estero. È un’opportunità per mettersi alla prova e conquistare l’indipendenza, ma può anche comportare il rischio di sentirsi soli. Prima dell’uscita di Gemelli, hai accennato alla tua esperienza a Londra: hai mai vissuto il contrasto tra indipendenza e solitudine? Se sì, come sei riuscito a trovare un equilibrio?
A. Sì, dopo il primo anno di università ho vissuto a Londra per un po’ di tempo, anche se non ero in Erasmus. In realtà, mi sarebbe piaciuto andare in Australia con un Working Holiday Visa. Si tratta di un visto di lavoro a tutti gli effetti, valido per un anno; se desideri rinnovarlo, devi lavorare per almeno 80 o 90 giorni in lavori socialmente utili. La loro accezione di ‘lavoro socialmente utile’ è un po’ diversa dalla nostra: con questo termine si riferiscono a tutti quei lavori che gli australiani non vogliono fare, come la raccolta di frutta e verdura nelle farm locali. Purtroppo, non potevo entrare in Australia a causa di un carico pendente, e avrei dovuto aspettare la fine del processo prima di una possibile partenza. Dunque, scelsi di andare a Londra, con i soldi guadagnati lavorando come cameriere e un aiuto economico dei miei genitori.
A Londra ho vissuto in estrema povertà e in estrema solitudine, quindi non riuscii a trovare alcun equilibrio (ride, ndr). Avevo 21 anni ed era la mia prima esperienza lontano da casa. Non era una vacanza; stavo cercando di trovare la mia strada dopo aver momentaneamente lasciato la musica. Londra, poi, è una città molto grande, e ti senti un puntino. Se tanti ragazzi si sentono come dei puntini già a Milano, a Londra ti ritrovi smarrito nel nulla. Però ho un bel ricordo, non so dirti il perché. Sai, con il passare del tempo ti accorgi che forse le cose non erano così tragiche come sembravano in quel momento.
Dopo Londra trascorsi un mese e mezzo a Tours, in Francia, a sud dell’Ile-de-France. È una città di circa 100mila abitanti, molto vivibile. Mi trovai benissimo e non mi sentii mai solo. Sebbene le mie esperienze all’estero non siano state legate allo studio, il consiglio che vorrei dare a chi vuole partire in Erasmus è di scegliere la meta giusta. Una città apparentemente meno attraente potrebbe essere la migliore opzione in termini di socialità e umanità. In questo senso, Londra è un enorme tritacarne. Ricordo che scelsi Tours invece di altre città come Bordeaux o Parigi proprio perché era la più piccola tra le tre, e avevo bisogno di quello dopo l’esperienza inglese.
Q. La superficialità e l’ipocrisia della società sono temi ricorrenti nella tua discografia, sia per quanto riguarda la tendenza a ‘gonfiare’ la realtà e le proprie esperienze per nascondere le insicurezze – come in Instagram nell’EP No Hooks, La Ballata di Mario Rossi in Come Uccidere Un Usignolo, Un Sasso nella Scarpa in 68 e Bugie in Gemelli – sia per il bisogno di esprimere sempre un’opinione, anche senza conoscenza dei fatti, come in Così Stupidi in Io Non Ho Paura. In questa ‘festa in maschera’, come la definisci in Fuoriluogo, pensi che ci sia spazio per mantenere un’identità autentica o siamo tutti costretti a partecipare a questo ‘gioco’?
A. Dipende da quanto sei disposto a trovare un compromesso e da quanto bisogno hai di raggiungerlo. Faccio un esempio: se le cose non mi stanno andando benissimo, se non ho un euro in tasca, magari faccio un calcolo costi-benefici e traggo le conclusioni su cosa mi serve realmente in quel preciso momento. Nel frattempo, posso continuare a guardarmi intorno, ma in certe situazioni è necessario scendere a patti. Sai, quando parliamo del nostro presente, tendiamo a farlo come se nel passato le cose fossero state davvero diverse. La verità è che il mondo è sempre stato così, solo che adesso ce ne accorgiamo perché ci sono i social network. Ho diversi colleghi che parlano male di qualcuno quando sono con me, poi il giorno stesso li vedo condividere una foto insieme. La situazione è così un po’ in tutti gli ambienti, anche quando lavoravo in ufficio era la stessa cosa: tutti che parlavano di tutti, tutti che alla fine facevano l’esatto contrario di quello che avevano detto prima. Sai, a volte penso che siamo spesso noi a notare questo ‘difetto’ negli altri e magari non ci accorgiamo che anche noi commettiamo lo stesso errore. Non c’è nemmeno una soluzione a questo meccanismo: è sempre stato così e ognuno deve capire i costi e i benefici di ciò che fa e di ciò che dice. È importante capire anche che l’ipocrisia di una persona è spesso innocua: ognuno combatte la propria battaglia, alla fine.
Q. Nel brano L’Impostore esplori i temi dell’insicurezza e della difficoltà a riconoscere i propri meriti, una condizione molto comune tra i giovani. Hai percepito una risposta particolare da parte dei tuoi ascoltatori? Secondo te, perché la ‘sindrome dell’impostore’ è così diffusa?
A. Sai, attribuisco molte delle cose che penso e vivo alla mia educazione, quindi al non sentirsi mai del tutto realizzati. I miei non mi hanno mai detto ‘bravo’ per qualcosa che ho fatto o per un traguardo raggiunto, e questo ha contribuito a creare una specie di vuoto. Appena nati, abbiamo tutti delle ‘impostazioni di base’, legate a bisogni primari o alla percezione dei pericoli. Poi, prima dei cinque anni, i nostri genitori cominciano a selezionare e attivare le nostre ‘impostazioni utente’, che sono diverse per ognuno di noi. In questo processo, se i genitori dimenticano qualcosa, quel ‘vuoto’ rimane per sempre. Tutti abbiamo una visione della realtà e di noi stessi basata su quello che ci è stato insegnato, e ognuno ha la propria ‘distorsione’. Magari qualcuno è cresciuto tra mille complimenti e, quando diventa adulto, si sente già arrivato. Un altro problema del nostro mondo è proprio quello di avere un sacco di ragazzi che si credono geni perché trattati dai genitori come tali, quando in realtà non lo sono. Ecco, io ho vissuto l’esperienza opposta.
Secondo me, raccontando la mia vita, sono riuscito a raggiungere tante persone simili a me. Effettivamente, sento di rispecchiarmi nei miei fan e viceversa. Quando incontro dei ragazzi che mi ascoltano, noto che siamo molto vicini sotto diversi punti di vista, dall’outfit al modo di esprimersi. Ora, non so se sia stato io a influenzare loro o viceversa, o se in realtà siamo semplicemente capitati tutti nella stessa bolla. Comunque, quando vedo un mio fan, lo riconosco e penso che abbiamo vissuto almeno una parte delle nostre esperienze in maniera simile. Ritornando alla domanda su L’Impostore, la risposta del mio pubblico è stata ottima; infatti, ai live la cantano tantissimo. Sinceramente non me l’aspettavo; se controlli le riproduzioni, è uno dei brani meno ascoltati del disco.
Q. Ti piace Trento? C’eri già stato? Ti piacerebbe suonare qui?
A. Feci un concerto ad Arco, sopra Riva del Garda (l’estate scorsa, ndr). A Trento non ho ancora suonato, ma ci sono passato più volte da piccolo, perché io e i miei genitori andavamo in vacanza in Alto Adige. Mia madre conosceva quelle zone, poiché suo nonno, nato sotto l’Impero Asburgico, decise di trascorrere la vecchiaia in un posto dove si parlavano l’italiano e il tedesco. Suo nonno morì a Malles (Venosta, ndr), quindi bazzicavamo spesso in quelle zone, tra Bolzano e l’Alpe di Siusi. Quindi sì, sono passato più volte di qua e ho dei bei ricordi.
Finita l’intervista, ringrazio Matteo per la bella chiacchierata. Aspettando una possibile data a Trento per un concerto, ci suggerisce di attendere il 2025 per nuove sorprese.
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