Disuguaglianze di Genere nel Mercato del Lavoro e in Accademia: Intervista ad Azzurra Rinaldi
In occasione dell’incontro Facciamo Eco: Pari e Dispari, tenutosi il 12 novembre al Teatro Sociale di Trento e organizzato da Fondazione Caritro, abbiamo avuto l’opportunità di scambiare due chiacchiere con Azzurra Rinaldi, economista femminista che insegna Economia Politica presso l’Università Unitelma Sapienza di Roma. Nella nostra intervista, analizziamo le barriere istituzionali e culturali che limitano l’ingresso e la permanenza delle donne nel mercato del lavoro, confrontando la situazione italiana con quella di altri Paesi europei. Infine, affrontiamo il tema della struttura patriarcale che domina l’ambiente accademico.
Q. L’Italia ha uno dei tassi di occupazione femminile più bassi in Europa. Quali sono, a suo avviso, le principali barriere strutturali che limitano la partecipazione delle donne nel mercato del lavoro italiano, e quali cambiamenti politici e culturali potrebbero avere il maggiore impatto?
A. La situazione in cui ci troviamo ha una matrice multifattoriale. C’è sicuramente un fattore culturale, legato al canone di adeguatezza della cosiddetta femminilità, che si riflette nel mondo del lavoro. La principale difficoltà non riguarda tanto l’ingresso nel mercato del lavoro, quanto il momento della maternità, periodo in cui tutte queste proiezioni di adeguatezza si manifestano in modo marcato. Secondo i dati INPS, una donna su cinque lascia il proprio lavoro dopo la nascita del primo figlio, mentre una madre su due abbandona l’occupazione dopo l’arrivo del secondogenito.
Ci sono anche dei fattori normativi. Ad esempio, il congedo di maternità per le lavoratrici dipendenti, obbligatorio, ha una durata di cinque mesi. Il congedo di paternità, invece, anch’esso obbligatorio per lavoratori dipendenti, è di soli dieci giorni. Sebbene retribuito al 100%, spesso gli uomini non usufruiscono di questo strumento. Questo ci riporta al fattore culturale: spesso tale rifiuto è legato alla paura di sentirsi svirilizzati, di essere definiti ‘mammi’, eccetera. Fortunatamente, le nuove generazioni si stanno muovendo verso una maggiore equità. Gli uomini più giovani mostrano una maggiore stabilità emotiva, più consapevolezza, più disponibilità a prendersi cura dei figli, senza il timore di essere etichettati negativamente.
Cosa si può fare? Io direi di partire da alcune misure deliranti del nostro sistema. Noi siamo uno dei pochissimi Paesi ricchi con uno strumento come la NASpI (Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego, ndr), che incentiva le donne a uscire dal mercato del lavoro. La NASpI prevede fino a due anni di retribuzione per le donne che dichiarano di essere in stato di gravidanza e di voler lasciare il lavoro, a condizione che l’abbandono sia definitivo. Si tratta di una misura folle: si utilizzano risorse pubbliche per facilitare l’uscita delle persone dal mercato del lavoro invece di sostenerle a rimanere attive. Potremmo prendere ispirazione dalla Spagna e dal suo modello di genitorialità condivisa: lo stesso congedo obbligatorio e facoltativo per entrambi i genitori, senza distinzioni. È necessaria anche una trasformazione culturale: l’attenzione è sempre posta sulla maternità come funzione quasi esclusiva delle donne, e questo è limitante. La maternità non definisce il valore della persona né il suo contributo alla società, che può essere espresso in mille altri modi.
Q. Rispetto ad altri Paesi europei, in Italia mancano ancora supporti diffusi e accessibili come asili nido pubblici e, come accennato, un congedo parentale equo per entrambi i genitori. Quali modelli europei ritiene più efficaci, e quali lezioni potrebbe prendere l’Italia da questi Paesi? Penso al modello di welfare socialdemocratico dei Paesi Scandinavi, dove un’ampia gamma di servizi pubblici non solo facilita la conciliazione tra lavoro e famiglia per le donne, ma genera anche numerose opportunità di impiego rivolte a loro. Tuttavia, questo avviene spesso al prezzo di una marcata segregazione occupazionale di genere…
A. Questo è verissimo. Secondo i dati più recenti raccolti dall’Unione Europea, gran parte dell’occupazione femminile si concentra in settori legati alla cura. Comunque, possiamo decisamente trarre ispirazione da questi modelli che considerano la persona in tutti gli aspetti della sua vita. Non siamo soltanto lavoratrici o lavoratori, madri o padri; siamo anche individui che desiderano tempo per coltivare i propri interessi o, semplicemente, per oziare. Purtroppo, in Italia facciamo ancora molta fatica ad abbracciare questa visione della persona nella sua completezza.
Ora, si aprono diversi temi. Per quanto riguarda gli asili nido, in Italia non se ne costruiscono di nuovi, non si rinnovano quelli esistenti e, nell’ambito del PNRR, si registrano tagli quasi quotidiani. C’è anche il tema del lavoro a tempo pieno: nel Centro e nel Sud Italia le strutture che forniscono impieghi a tempo pieno sono pochissime, generando una spirale di pregiudizi e stereotipi che tentano di giustificare l’assenza delle donne dal mercato del lavoro.
È necessario, ancora una volta, considerare l’adozione di un modello ispirato a quello scandinavo, ma non con un’ottica di pietà o tenerezza. La verità è che il cambiamento non riguarda solo le donne, ma l’intero Paese. Da un lato, se le donne fossero messe in condizione di lavorare, il nostro PIL aumenterebbe significativamente. Nell’ultimo report di Eurostat si legge che il tasso di occupazione femminile in Italia è quattordici punti percentuali sotto la media europea. Sanando questo divario, si registrerebbe un aumento del 7% nel nostro PIL, dunque nella produzione di ricchezza nazionale. Allo stesso tempo, siamo un Paese con bassissimi tassi di natalità. In Italia domina ancora l’idea nostalgica di un periodo d’oro – mai esistito per le donne – in cui la madre stava a casa a prendersi cura di dieci bambini. La verità e che tutti i Paesi ricchi con i tassi di natalità più alti sono anche quelli con i tassi di occupazione femminile maggiori. Dunque, l’idea è quella di prendere spunto da quei modelli: non c’è alcun motivo che ci impedisca di farlo, se non la nostra arretratezza culturale e l’ancoraggio a certi stereotipi di genere.
Q. Per concludere, vorrei chiederle un’opinione sulle disuguaglianze di genere nel percorso accademico. Se i dati mostrano che le donne sono più numerose degli uomini nei corsi di laurea triennale e magistrale, perché, invece, gli uomini sembrano avere un vantaggio nel proseguire la carriera accademica? Quali azioni potrebbero aiutare a superare questo divario?
A. La toccherò pianissimo: come accademica, ritengo che il sistema accademico sia profondamente patriarcale. Non c’è niente da fare, ha dei meccanismi premianti che tendono a escludere le donne, le quali, rispetto ai colleghi uomini, hanno generalmente meno reti consolidate. Le donne sono statisticamente meno numerose, quindi è più difficile creare reti fra di loro. Se consideriamo i criteri di pubblicazione e i meccanismi che regolano l’avanzamento di carriera, sono i grandi gruppi di ricerca a garantire la possibilità di pubblicare di più e meglio. Per le donne, ciò significa rompere un soffitto che non è di cristallo, ma di titanio. Allo stesso tempo, se analizziamo i dati sulle professoresse ordinarie, coloro che riescono a raggiungere questa posizione sono per la maggior parte senza figli. È proprio un meccanismo che non funziona. Io direi di occupare in massa e ribaltare tutto, noi ci abbiamo provato (ride, ndr). Se molte donne riuscissero a entrare in accademia, il sistema diventerebbe sicuramente meno tossico di quanto non lo sia già. E ora mi licenzieranno!
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