Attivismo e avvocatura, una sola missione: intervista a Cathy la Torre

Il 12 novembre si è tenuto l’evento Facciamo Eco: pari e dispari al Teatro Sociale di Trento, organizzato dalla Fondazione Caritro con tanti ospiti diversi e interessanti. Tra questi, abbiamo avuto occasione di fare due chiacchiere con Cathy la Torre, avvocata e attivista in ambito di diritti, politica e violenza di genere. In questa breve intervista abbiamo avuto la possibilità di riflettere sull’importanza di essere cittadini attivi e saper alzare la propria voce in modo consapevole, anche attraverso l’esempio dell’intervistata stessa. Ci siamo poi soffermati sul ruolo di noi giovani nella società di domani e sulla difficoltà spesso evidente del trasformare le proteste in provvedimenti concreti da parte della politica. 

Nasce prima la Cathy avvocato o la Cathy attivista? 

Nascono insieme, non c’è l’una senza l’altra.

Da dove viene l’idea di impegnarti nel sociale, oltre a fare il lavoro per cui hai studiato?

Una volta mi hanno presa in giro perché ho detto che essere attivisti vuol dire “essere attivi, fare qualcosa”: anche alzarsi dal divano e decidere di partecipare ad un’assemblea o decidere di fare bene la raccolta differenziata. Io sono sempre stata così, non ho mai pensato che la mia professione potesse prescindere dall’interesse per le persone, per le loro vite e per le ingiustizie che molto spesso tutti noi subiamo. Quindi non c’è un prima e un dopo e non c’è per me la possibilità di pensare le due cose come separate. 

Non a caso il mio nickname è Avvocathy, che è una crasi tra l’avvocatura e il mio nome e questo era già il mio soprannome al primo anno di Università.

Oggi spesso vediamo che nel momento in cui accade qualcosa che riguarda temi importanti, le manifestazioni durano qualche giorno e poi spesso la questione va a scemare e si fa poco di concreto. Nonostante questa tendenza, credi che l’attivismo sia ancora un’arma importante?

Questo è un argomento molto complesso che richiederebbe una riflessione: quand’è che gli spazi in cui andavamo a protestare per ciò che non ci stava bene si sono trasformati in un like, in un follow o in qualcosa che possiamo fare comodamente da casa? Sicuramente i social hanno un grande volto buono, quello di dare eco a chi non aveva il potere di far sentire la propria voce. E possono essere, di conseguenza, un ottimo strumento per fare cittadinanza attiva. Si chiama disintermediazione: prima per poter fare la denuncia di un sopruso dovevi avere un aggancio e da lì forse arrivava un giornale; oggi invece fai un video sui social e questo ha la potenzialità di diventare virale. Questo ha, però, un po’ sostituito il fatto che i nostri corpi siano anche armi di battaglia e quindi l’idea di alzarsi dal divano e batterci per ciò che ci sta a cuore. Penso che tornare ad appropriarci delle piazze possa aiutare collettivamente a incontrarci nelle nostre fragilità e quindi nelle nostre vite. 

Noi giovani, invece, cosa possiamo fare per far sì che la società in cui vivremo da adulti sia più consapevole?

Direi semplicemente vivere bene la vostra vita, all’insegna di poco giudizio, pochi pregiudizi, pochi bias e pretendendo il rispetto che tutte le generazioni meritano. Io ho lottato personalmente nella mia generazione: ero una cosiddetta “No Global”. Quando io ero giovane l’idea di un mondo globale, che sarebbe diventato anche molto ingiusto, era il tema che più ci preoccupava. Poi alla fine abbiamo perso, è vero, ma questo non ha impedito a me e tanti altri di far sentire la nostra voce. Quindi l’augurio che posso fare a tutti voi giovani è di fare in modo che nessuno mai vi possa dire che non potete esprimere la vostra voce. 

Invece cambiando argomento, si sta avvicinando la giornata Contro la violenza di genere e ho visto che hai fatto un post in merito al caso Cecchettin, perché pensi che non si faccia mai nulla di concreto a livello governativo? 

Perché tutto è funzionale. Ormai si è diffusa la retorica del non fare nulla finché non avviene un fatto grave, come l’omicidio di Giulia Cecchettin, allora poi si propone un provvedimento iper repressivo e poco dopo tutto cade nell’oblio. E’ così che funziona la politica in Italia dagli anni 80’ più o meno. Le grandi riforme vengono tutte prima del 1985 (divorzio, aborto, cambio di sesso…) e da quel momento in poi la nostra politica si è retta sull’indignazione, sul fare una conferenza stampa e poi sul dimenticare tutto di nuovo. Si cavalca molto l’onda di ciò che accade. E, nella maggior parte dei casi, purtroppo non si conclude nulla. 

Intervista di Arianna Rampino 

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