Trent’anni dal genocidio in Rwanda: galeotta fu l’indifferenza

All’indomani del 26 dicembre 1991 il mondo conosciuto fino ad allora risultava profondamente mutato: l’URSS era implosa, e al posto della pesante ombra della Guerra Fredda si faceva largo una narrazione trionfalistica di pace e prosperità; v’era addirittura chi parlò, riscuotendo discreto successo, di “fine della storia”.

Tuttavia, il 6 aprile del 1994, fu ben chiaro come la storia non fosse affatto finita: con l’abbattimento dell’aereo privato del presidente ruandese Juvenal Habyarimana aveva inizio uno dei più tragici eventi della storia contemporanea, che avrebbe causato, nel giro di 100 giorni, tra 800 mila e un milione di vittime e 2 milioni di sfollati su una popolazione che ne contava poco più di 7.

Il Rwanda per mezzo secolo fino al 1962 è stato soggetto della barbarica colonizzazione belga, che più di altre ha segnato i destini degli stati soggiogati.

Ed è proprio nella malagestione belga che vanno ritrovate le radici di tale massacro. Il Rwanda è composto principalmente da due gruppi etnici: gli Hutu e i Tutsi, rispettivamente l’85 e il 14 % della popolazione. Peculiarità della regione, però, è il dominio della minoranza tutsi, che, a partire dal ‘500, grazie al “buhake”, un contratto sociale, si avvantaggiò politicamente sulla maggioranza contadina Hutu.

Come la storia ci insegna, dall’India passando per la Siria, quando una minoranza etnico-religiosa governa sulla maggioranza, questo sarà causa di inevitabili dissapori; nel caso ruandese, tali contrasti sono stati esacerbati dal dominio coloniale, prima tedesco e poi belga: infatti, se prima l’appartenenza a una delle due etnie era considerata dai locali come un qualcosa di decisamente fluido, con l’arrivo degli europei si fece strada l’idea che il discrimine potesse essere trovato nelle somaticità. 

I colonizzatori, in una squisita e meschina logica di “divide et impera”, schierandosi a seconda dei propri interessi per gli uni o per gli altri, girarono fortemente il dito nella piaga, in una ferita che diverrà sempre più profonda fino a quel tragico 6 aprile: nell’incidente aereo non solo morirà Habyarimana, ma anche il suo corrispettivo burundese Ntaryamira, anch’egli Hutu.

Sebbene l’identità di chi causò l’incidente rimane tutt’oggi un mistero, questa fu la proverbiale goccia che fece traboccare il vaso: con cinica sistematicità (“weed out the cockroaches”), chiunque sulla propria carta d’identità presentasse la dicitura “Tutsi” veniva eliminato, e allo stesso destino andavano incontro anche gli Hutu moderati.

Lo sterminio conobbe una fine il 19 luglio; le sue conseguenze, tuttavia, risuonano ancora non solo in Ruanda, ma specie negli altri stati della regione. La comunità internazionale, in quei 100 giorni di inferno, rimase inerte: l’ONU ignorò le richieste di aiuto del generale canadese Roméo Dallaire, a capo della missione UNAMIR, mentre le grandi potenze ebbero nel migliore dei casi un atteggiamento attendista, e nel peggiore uno controverso – con la cd. “Opération Turquoise”, la Francia è sospettata di aver avallato gli estremisti Hutu anche durante il genocidio.

Oggi più che mai, non essendo possibile tornare indietro e sottrarre le vittime alle violenze perpetrate, bisognerebbe ricordare come l’indifferenza di chi rimase a guardare fu un cruccio importante, con un Occidente più preoccupato dal caso O.J. Simpson che dalla vicenda; la comunità internazionale e le Nazioni Unite, pensate con il ruolo di “deus ex machina”, portano sulle spalle il peso di tale carneficina, con i corpi che si continuano a contare.

A 30 anni da tale monito, l’indifferenza che pervade la comunità internazionale nei confronti della vita di uomini, donne e bambini, da Gaza al Darfur, purtroppo, non pare essere mutata, con l’ONU ancora incapace di svolgere il ruolo per cui è stata concepita.

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