Disturbi alimentari e sport, l’omertà dietro ad un mondo di prestazione e degradazione

“Occhio a non esagerare con la merenda quando rientri a casa dall’allenamento”

“Se continui a mangiare, in salita non ti tiri su nemmeno aggrappandoti all’auto”

I pensieri corrono veloci nella testa, tanto quanto le ruote sottili della bicicletta da corsa, filante lungo la strada che viene percorsa quasi, se non ogni giorno.

Per molti il ciclismo è pura follia: un concentrato di sofferenza e dolore non necessari. Come vale per qualsiasi passione, però, non c’è male che possa fermarti.

È un moto inspiegabile che ti spinge a mettere il cuore, oltre che la testa e le gambe per arrivare in fondo. Stremato e distrutto dalla fatica ma innanzitutto felice. Quella furia che poi si dissolve in un sorriso la possiamo intravedere nei volti di molti ragazzi, giovani ma anche uomini e donne, che hanno investito tempo per allenarsi nel ciclismo. Uno sport che forse più di altri concede pochi sconti, se non nessuno.

Un detto popolare lo dice chiaramente: “Hai voluto la bicicletta? Ora ti tocca pedalare”.

La strada ha molte direzioni ma per molti di loro punta dritta al professionismo.

Fare del ciclismo (o della propria passione sportiva) un lavoro può significare correre in giro per il mondo nelle gare più entusiasmanti. Come il Tour de France, una delle competizioni più estenuanti in sella a una bicicletta, che va dalle pianure fino alle vette delle montagne, dalle Alpi fino alle porte di Parigi all’ombra della Torre Eiffel.

Chi non vorrebbe prendere parte ad un evento di tale portata che, per numeri e dimensioni, si posiziona dietro soltanto ai Mondiali di Calcio e alle Olimpiadi?

Il valore, anche commerciale, dei sogni di queste future promesse è stato intuito molto bene da allenatori, dirigenti e procuratori. Alcuni consapevoli dei rischi del gioco, altri senza scrupoli e che per anni, infatti, hanno sfruttato tutto questo a vantaggio di risultati e profitto. E per scegliere i loro gladiatori, si usa un metro di giudizio che trasforma le persone in mere sequenze di freddi numeri, nudi e crudi.

Per ottenere quei numeri, negli sport di endurance ci si concentra sulla potenza (espressa in watt) e sul peso. Limando ogni singolo grammo di grasso corporeo per ottenere quella magrezza che, dispiace dirlo, è tutto fuorché esempio di bellezza.

Qualcuno in passato se ne è accorto alla vista di corridori scavati nel volto. Oggi quell’indifferenza ha spinto molti a riformulare il metodo da una prospettiva (si spera) più umana. Si affacciano sul campo nuove figure di nutrizionisti che, in sinergia con chimici e scienziati, propongono strategie alimentari che piano piano stanno spodestando le false credenze sul cibo e sulle calorie da assumere.

Esiste una regola che è bene non dimenticare: un motore, per funzionare, ha bisogno di carburante… e quello lo ottieni soltanto dal cibo.

Se l’obiettivo della riduzione del peso è raggiunto con l’oppressione, attraverso diete non corrette, le cose non funzionano. Non funziona ovviamente il fisico, ma il rischio più grande è quello di inceppare la mente dell’atleta: il suo cervello, affamato e confuso, sviluppa una serie di pensieri ossessivi e sbagliati. Più quest’ultimi si sedimentano nella testa del ragazzo, più diventa difficile sradicarli in seguito.

È un meccanismo irrefrenabile, come una bicicletta lanciata in discesa: non la puoi fermare da solo. Ma se nessuno agisce dall’esterno e ci si preoccupa maggiormente del risultato. La salute dell’atleta viene spesso intaccata irrimediabilmente.

I tessuti deperiscono, gli organi si svuotano, le ossa si indeboliscono e il corpo allo stremo è costretto a cibarsi del suo stesso muscolo. Quel muscolo che, teoricamente, dovrebbe servire ad allenarsi e gareggiare, viene invece letteralmente cannibalizzato.

Un errore di sistema che si è radicato tanto quanto lo furono in passato le pratiche di doping. Tutti sapevano, tutti tacevano. È difficile cambiare il modo di pensare – the way of thinking – dei tecnici e del pubblico al seguito. Purtroppo, ma non per loro colpa, sono anche gli stessi atleti a non parlarne. Soprattuto se sono coinvolti personalmente nella “malattia” e spaventati dalla paura di rimanere appiedati.

Chi tra dirigenti e atleti potrebbe provare a cambiare le regole del gioco, abbattere questo muro di menzogne dietro al mondo dello sport e abolire quel voto di omertà?

Vero da dirsi, ma non facile da farsi.

Allora, forse, bisognerebbe cominciare a disfarsi di quell’indifferenza e lasciare spazio al buon senso. Un’indifferenza che è innanzitutto quella degli adulti che derubricano questi problemi giustificandoli come capricci adolescenziali.

Dall’altra ci sono gli atleti che pur di non deludere, procedono con altrettanta indifferenza. Trascurando i segnali del loro corpo: debolezza, dolori cronici e l’ombra minacciosa di un infarto che, per quanto suoni incredibile, è possibile.

Sono le (tante) storie di ciclisti a testimoniarlo, costretti ad abbandonare le loro carriere per complicazioni cardiache. Sonny Colbrelli, dopo un’annata magica nel 2021 segnata dalla vittoria nella prestigiosa Parigi-Roubaix, non ha avuto modo di ripartire con la nuova stagione e già a febbraio si trovava in terapia intensiva, a causa di un collasso sopraggiunto, guarda caso, sulla linea del traguardo di una gara.

Quante carriere sono durate l’attimo di un battito di ciglia? Vale la pena spremersi fin da subito per ottenere una vittoria o forse due, ma poi d’un tratto ritrovarsi sulla porta di casa con una valigia piena di sogni infranti e un futuro tutto da riscrivere?

Quanto valore si dà al tempo in un mondo che impone di fare tutto, e subito? Perchè invece non investire al fine di ottenere una lunga carriera, restando in forma non solo negli anni di massima resa, ma anche per quando giungerà l’inevitabile pensione?

Si leggono notizie su quello che sta accadendo nello sport giovanile: atleti che dopo qualche fugace risultato si ritirano in preda alla depressione. O altri troppo sfortunati per avere la possibilità di raccontare il proprio malessere imparando dagli errori.

Viene quasi da sorridere di fronte alla carriera di un fuoriclasse del ciclismo moderno, Alejandro Valverde. Lo spagnolo con serietà e pazienza ha raccolto più di 130 vittorie spartite nell’arco di 20 stagioni. Il primo contratto a 22 anni, il ritiro a 42.

Qualche segreto innominabile? No, semplicemente ha lavorato con costanza e impegno senza andare in escandescenza. Quanti invece si sono ammalati di quella sindrome che oggigiorno si identifica con la parola burn-out? Quanti pur di stare appresso a schemi alimentari rigidi sono arrivati all’esaurimento?

Valverde non è stato costretto a privarsi dei piaceri della vita, anzi, ha trovato l’equilibrio senza rimanere fisso sulla routine per ogni singolo secondo della sua vita.

Esiste un corretto dosaggio per raggiungere il risultato senza eccedere? Un confine c’è, ma il margine è risicato: basta un attimo per rovinare una buona prestazione preservando il benessere psico-fisico, al contrario di una performance ottenuta raschiando il fondo del barile, a costo di rimanere senza una goccia di energia.

Ma poi cosa resta? Una fatalità che accomuna tantissime persone (in Italia si stima un numero di circa 3 milioni e mezzo di ricoveri per anoressia e altri disordini alimentari). Sono soprattutto ragazzi e ragazze al dì sotto dei 14 anni. Molti di loro coltivano il sogno di una carriera sportiva e, spinti da un malsano desiderio di essere più performanti, sono disposti a tutto. Anche a sacrificare il loro corpo.

Si convincono, magari per qualche stupida frase detta a sproposito, che la via più veloce sia quello di sottrarre: meno calorie uguale a meno peso. Il motto è: “più leggero, più prestante”. Ma è un boomerang che una volta lanciato tornerà indietro colpendoti ancora più forte. Quella vana convinzione di avercela fatta ti si riverserà contro, demolendo ogni desiderio di gloria. Sulla strada rimarrà un corpo allo stremo, mentre serpeggia l’amara delusione di un futuro senza più speranza.

Se solo qualcuno gli avesse insegnato che non è quel grammo in più di pasta a rallentarti in salita. E non è nemmeno quel “kiletto” in più a rovinarti. Briciole che tuttavia, a detta di ottusi e cocciuti allenatori, rappresentano il male assoluto. Invece, qualche etto di grasso potrebbe aiutarti a vincere in condizioni proibitive. Un corpo ben nutrito è un corpo più efficiente, anche con freddo, vento e pioggia.

Ne è un esempio la curiosa storia del norvegese Jonas Abrahamsen, classe 1995. Ciclista professionista da diverso tempo, quest’anno ha vissuto la sua migliore stagione di sempre. Per 21 tappe e 21 giorni ha esaltato la gente accorsa al Tour de France, grazie alle sue scellerate ma incredibili fughe dalla pianura alle montagne.

Qual è il segreto di una tale costanza di rendimento, nonostante la fatica che si sormonta dopo tre settimane pedalando tutti i giorni con i battiti alle stelle?

Jonas, con grande stupore del pubblico sia di giornalisti che di appassionati, afferma di avere trascorso gli ultimi due anni aumentando di 20 chili.

Pazzia, eresia, ma come è possibile? La domanda che sorge spontanea è come si possa aumentare di peso, migliorando il livello di fitness e la prestazione atletica.

A dispetto del scetticismo di (molte) teste calde, si può essere più forti anche con più chili. I trascorsi giovanili di Jonas ne sono una prova: a 22 anni pesava poco più di 50 kg, oggi invece ammette candidamente di essere vicino agli ottanta.

Soprattuto racconta che quando era magro come un fuscello, a malapena riusciva a terminare un allenamento. Nemmeno il riposo lo aiutava a recuperare, così il giorno dopo era talmente stanco che per riuscire a risalire in sella doveva strisciare. Ma lo faceva, perchè così aveva imparato e così, soprattutto, gli avevamo insegnato.

Immagina quando detto e ripeti il modello per un anno intero, sottoponendo il fisico ogni giorno ad uno stress continuo, pur di macinare chilometri ma risparmiare sul conteggio calorico. Il pensiero di sforare con le calorie ma l’ossessione di aumentare la distanza diventa un processo inarrestabile, anche fino alla morte.

Chi può fermare l’atleta sull’orlo del precipizio? Jonas ci è riuscito, ma quanti hanno creduto alle follie dei propri allenatori? Perché nessuno ha spiegato a loro che uno scheletro non può riuscire ad azionare un mezzo che si muove grazie alla forza nelle proprie gambe? Non sicuramente mangiando insalata e una fetta di carne alla griglia.

Non si può fare conto solo sulle proprie capacità, qui bisogna lavorare affiancati da personalità lungimiranti che capiscano l’importanza di un bilanciamento tra la ricerca della prestazione e la cura della persona. Imparare anche ad accettare il proprio corpo con i suoi pregi e difetti, bello e brutto che sia, usando un eufemismo.

Oppure ci si può farsi coccolare dalla beata indifferenza e lasciare che sia qualcos’altro a fermarci. Ma l’esito di questa alternativa non penso potrà piacervi.

A un certo punto, mentre ti alleni intensamente o riposi tranquillo sul divano di casa, il cuore racchiuso in un corpo ridotto pelle e ossa può decidere di smettere di battere.

E stop… addio carriera, e addio vita.

Pietro Piffer

Organista Full Time Studente a Beni Culturali ma ciclista a tempo perso Appassionato di scrittura e cinema Laurea Triennale al Conservatorio F.A. Bonporti 2023

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