Storie da Dentro: la vita di Pietro

Carcerato a 62 anni, prima a Padova e ora a Trento per reato finanziario, ho scoperto cosa sia la vita in carcere. Ho scoperto che si può vivere 24 ore al giorno in una cella di 6 metri x 5 con altri 7 esseri umani che hanno in comune solo il fatto di essere persone”.

Pietro lo incontro nel negozio “Di Casa in Cosa”a Trento.

È un negozio dell’usato gestito dalla cooperativa no-profit “Dalla Viva Voce”, che si  occupa di aiutare il reinserimento in società di persone con esperienze di detenzione e prevenire la ricaduta nell’illegalità. 

Le parole a inizio articolo sono sue, tratte da uno scritto del 2018, durante la detenzione nel carcere di Trento.

In quel periodo” mi racconta “l’amministrazione penitenziaria mi aveva dato l’autorizzazione per diventare Articolo 21, quindi lavoravo per il carcere stesso. Il mio nuovo lavoro consisteva nella pulizia dei due grandi corridoi, delle quattro lavanderie e delle tre scale. E’ stato importante per me, anche se avevo già iniziato a fare gli articoli sul giornalino, e mi è spiaciuto doverlo lasciare”.

Pietro mi affida la sua storia, entrambi seduti su due grandi poltrone d’antiquariato vicino alla vetrina del negozio.

Mi racconta della sua infanzia e della sua formazione: “Prima facevo parte di quella che si autodefinisce società civile, nel ruolo di piccolo imprenditore artigiano nel settore calzaturiero da ben quaranta anni.”

Mi racconta delle sue aziende, una in Italia e una in Repubblica Ceca, dove si trasferisce con la famiglia, delle difficoltà gestionali, del dichiarato fallimento della ditta italiana nel 2009 e del lento iter giuridico.

Pietro arriva a processo nel 2015, ben 6 anni dopo, condannato a 3 anni e 4 mesi per bancarotta fraudolenta.

La detenzione la vivrà però solo dal 2017, prima all’interno della Casa Circondariale di Padova, e poi nel carcere di Trento.

L’impatto” mi dice “ è stata la cosa più brutale: l’impatto tremendo di chi vive una vita ormai quasi normale, dopo 8 anni. Hai sempre il pensiero, ma poi ti arriva questo schiaffo  e vivi il passaggio completo dalla vita normale ad essere tenuto dai fili di un giudice: qualsiasi cosa tu voglia fare, decide lui.

Pietro vive i primi 3 mesi di detenzione in una cella 6m x 5, con altri sette carcerati: tre di loro sono italiani, due tunisini e due centrafricani.

Lì ho capito subito la gerarchia che si crea a seconda delle tue condizioni economiche, della tua età e di che gruppo fai parte: si creano le caste, come in India”.

Mi racconta del microcosmo del sistema carcerario, dei ruoli che si instaurano tra detenuti, del suo improvviso trasferimento nel carcere di Trento, comunicato la sera prima per il mattino seguente.

Ma da lì” mi dice “tutto è cambiato: mi ritrovo in una struttura nuova, con celle che, pur avendo dimensioni più o meno uguali, possono ospitare al massimo 4 persone, con un bagno ampio, piastrellato, una cucina ampia con una finestra”.

Avevo già capito” mi confida “che le due cose importanti erano avere soldi e trovare il modo di far passare il tempo, e quindi ci ho provato”. È così che Pietro scopre una nuova vita: partecipa due volte al corso di lingua tedesca, si iscrive al laboratorio pomeridiano di scacchi, partecipa a un corso sulla Costituzione, fino a diventare Articolo 21 e ad accedere nel 2019 al lavoro all’esterno della struttura carceraria.

Da questo punto di vista” afferma “il carcere di Trento mi ha dato tanto: è qui che mi trovo nella condizione, a 63 anni circa, di decidere cosa fare, e decido di entrare nel socialeCiò che mi sta a cuore è che l’esperienza carceraria mi ha permesso di innestarmi in questa situazione. Qui ho conosciuto il Trentino volontario, che si adopera per le persone in difficoltà”.

La storia di Pietro cuce un filo che unisce la sua esperienza al tema più ampio della Rieducazione come finalità della pena: ci ricorda che la partecipazione può fare la Differenza, e che qualsiasi momento della vita permette di innescare un cambiamento.  

“Quindi, per concludere” scriveva in un articolo del giornalinoho scoperto che le persone valgono per quello che sono, per come si comportano e per quello che fanno; giudicarle e catalogarle per l’errore che hanno commesso per meritarsi il carcere è profondamente errato”.

Eva Pedroni

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