Deumanizzazione e sistemi di potere, intervista a Marco Omizzolo

Marco Omizzolo è un sociologo, ricercatore Eurispes e professore di Sociopolitologia delle Migrazioni alla Sapienza di Roma. Uno dei temi centrali di cui si occupa è lo sfruttamento degli immigrati nei sistemi di schiavismo moderno e lavoro forzato, soprattutto nel contesto delle agromafie – le organizzazioni criminali che si occupano del settore agroalimentare. Omizzolo, grazie alla sua esperienza, ci mostra come dietro a meccanismi disumani e disumanizzanti ci sia in realtà un intero sistema che li giustifica e li legittima, seguendo la logica occidentale del profitto.

In questa intervista parleremo di come la deumanizzazione, processo in cui le persone sono ridotte a meri strumenti, private di diritti e dignità, viene strumentalizzata per un interesse spesso economico ed ideologico dell’Occidente, sottolineando l’importanza di una presa di consapevolezza di queste dinamiche e soprattutto della necessità di un’azione collettiva per restituire umanità e giustizia alle persone e al nostro Paese. 

Vista la sua esperienza sul campo, può spiegare cosa significa essere deumanizzati per chi ne è vittima e come questo poi si riflette su chi è spettatore di queste dinamiche? 

Intanto bisogna dire che non si nasce deumanizzati, si nasce uomini e donne. La deumanizzazione risponde a logiche, a sistemi di potere e interessi che tendono a dividere in un’ottica che non è soltanto di autodifesa, ma io ritengo sia in un’ottica anche di avanzamento dell’umanità divisa in due. La deumanizzazione è una forma di divisione dell’umano, tramite cui si finisce col costruire e naturalizzare umani di Serie B e umani di Serie A, secondo una logica gerarchica che risponde molto al “chi comanda e chi viene comandato” e che nel contempo risponde a quello che possiamo definire una sorte di neo-eurocentrismo contemporaneo. L’idea, cioè, per cui c’è un centro del mondo che è dove noi ci collochiamo come Occidente e come Europa, che si riserva il diritto di definire gli altri come non umani appartenenti al nostro stesso genere (o non abbastanza umani per appartenere al nostro stesso genere) e che per questa ragione sono necessariamente collocati in uno spazio sociale, politico e ambientale molto periferico. 

Ci rifiutiamo di dare loro accesso al nostro mondo, e li teniamo fuori attraverso un atto che è iper-potente, l’atto normativo; anche quando questa norma è in completa contraddizione con l’ordinamento democratico per eccellenza, che è quello della nostra carta costituzionale. 

Le persone che condanniamo ai margini, o che a volte condanniamo a morire ai margini, sono coloro che poi ci servono come soggetti subordinati. Al punto che quando entrano nel nostro mercato del lavoro diventano non più soggetti subordinati, ma oggetti subordinati. 

Quindi è come se ci fosse una certa funzionalità in questo sistema? 

Esatto. A noi non interessa l’uomo o la donna che ha diritto ad entrare perchè scappa da una guerra, a noi interessa la forza lavoro potenziale, cioè ci interessano in quanto braccia. Ci interessano drammaticamente anche in quanto produttori o produttrici di figli, in una logica di convenienza. 

Quante volte noi ascoltiamo la tesi per cui “dobbiamo far venire in italia i migranti perché fanno più figli di noi”. Invece, possono entrare in Italia e in Europa perché hanno il diritto di farlo; non perché sono più fecondi di noi, non perché sono più generativi di noi. Hanno il diritto di entrare in europa perché questo risponde a un diritto umano, non a un diritto di convenienza del nostro sistema produttivo e sociale.

Questo genere di lettura, che abbraccia peraltro un arco politico molto ampio (non riassumibile nella divisione destra-sinistra), rischia di produrre quella ufficiale deumanizzazione che attraverso le norme dice “tu puoi entrare, tu non puoi entrare” oppure “tu puoi morire nel mediterraneo e ti valuto come un invasore, o come un clandestino, ti riporto nel tuo paese di origine oppure ti mando in nuovo paese che decido io, come l’Albania”. 

Questa selezione dell’umano risponde a una logica autoritaria e dittatoriale che è in piena contraddizione con lo stato democratico, noi stiamo realizzando – dentro una democrazia formale – una democrazia illiberale, anti-umanitaria e anti-umanista che rischia di diventare il tratto distintivo della società del prossimo futuro.

Va anche detto che la deumanizzazione è una sperimentazione. Ergo, ciò che oggi è considerato non umano, rischia domani di allargarsi, ovvero potranno domani essere considerati non umani o deumanizzabili coloro che oggi si considerano umanizzati. Quindi, noi rischiamo oggi di costruire pratiche e comportamenti che colpiscono gli altri che vengono da fuori, ma che domani potrebbero colpire noi e i nostri figli. Bisogna per questo fare molta attenzione, perchè parliamo attraverso la deumanizzazione della natura propria della democrazia contemporanea e di quella del futuro.

E cos’è che alimenta secondo lei questa narrazione e queste azioni disumanizzanti?

Tante cose. Intanto la logica propria del potere, cioè l’idea per cui il potere che deriva dall’organizzazione dello stato-nazione, si sente in pericolo nel momento in cui viene messo in discussione da quello che viene da fuori, perché proviene da un’altra terra, da un’altra cultura e da altre abitudini e che quindi ha anche un’altra consapevolezza. In questo modo qualunque potere organizzato entra in un terreno sabbioso, non più stabile.

Poi, gli interessi. Molto spesso la deumanizzazione legittima interessi economici o criminali che sono elevatissimi. Io mi occupo molto, per esempio, di agromafia. Il business delle agromafie secondo l’istituto Eurispes è di 24,5 miliardi di euro soltanto in agricoltura, e l’80% delle persone sfruttate in agricoltura sono i migranti e le migranti. Molte di queste persone che vivono questa condizione, nel sud, nel nord e nel centro del nostro Paese, vivono paradossalmente anche in veri e propri ghetti.

Tutto questo produce non solo la marginalità, ma produce sfruttamento, e lo sfruttamento produce capitale illecito, e il capitale illecito produce profitti che restano nelle tasche di criminali, di chi gestisce i criminali e di chi consente loro di continuare questa carriera disumanizzante. 

Vi sono diverse ragioni, quindi, per cui il processo di deumanizzazione si manifesta e cresce drammaticamente. Abbiamo posto ministri dell’Interno – che sono l’espressione del potere securitario per eccellenza – che hanno definito i migranti che fuggivano, per esempio, dal regime dei talebani in Afghanistan come un “carico residuale”. Questo non è altro che la traduzione dell’uomo in una cosa, definito come “carico”, ma anche come oggetto di scarto, e questo dà l’idea del consumo dell’umano che stiamo mettendo in campo. 

Qual è, estremizzando, il consumo dell’umano per eccellenza? La loro condanna a morte, il Mediterraneo, la rotta balcanica. Sono le due variabili, le due bussole, che definiscono quella che oggi, riprendendo Achille Mbembe, definisco necropolitica, cioè la deumanizzazione è una politica che non ha più a cuore i diritti e la vita, ma che può produrre al contrario la morte delle persone. 

Come si può contrastare, secondo lei, questo tipo di narrazione e questo tipo di dinamica, che come lei ha detto può diventare anche un’arma a doppio taglio?

E’ molto difficile rispondere a questa domanda. Ci sono diverse risposte, la prima è approfondire, approfondire, approfondire. Cioè evitare la superficialità, che è il piano inclinato, o il terreno di coltura delle forme nuove di nazionalismo, di segregazionismo e di deumanizzazione dell’umano. Perché la superficialità molto spesso risponde a una logica istintiva e banalizzante. Da questo punto di vista agli studenti e alle studentesse del mondo universitario che studiano e approfondiscono auguro di diventare un’avanguardia in questo senso, perché hanno in mano uno strumento potentissimo, che è la conoscenza. In più, insieme alla conoscenza, grazie alla vostra età e agli strumenti nuovi che avete, voi potete portare questa conoscenza nel futuro. 

Sapere e conoscere per distinguere è centrale, perché altrimenti ci si confonde con quelli che definiscono gli altri un “carico residuale”, oppure degli invasori, oppure di coloro che ci sostituiscono etnicamente. 

La socializzazione è un altro aspetto fondamentale, io e lei non dobbiamo sapere solo come stanno le cose, dobbiamo anche parlare tra di noi e con gli altri per costruire una dinamica sociale diversa, per uscire dalla logica binaria per cui io parlo o con il mio cellulare o con il mio computer. Io devo tornare a parlare con gli altri esseri umani, e tra gli altri esseri umani con i quali bisogna tornare a parlare ci devono essere quelli che noi abbiamo deumanizzato. 

Lei immagini che messaggio rivoluzionario sarebbe se noi italiani – mondo universitario, mondo della ricerca – anziché parlare soltanto al nostro interno iniziassimo a parlare anche con chi vive nei ghetti, con chi arriva disperato sulle nostre coste, ascoltando le loro storie. Da questo punto di vista la sociologia ha degli strumenti avanzatissimi. Io insegno Sociopolitologia delle Migrazioni alla Sapienza al Dipartimento di Scienze Politiche, e immagini che tre lezioni ogni anno le tengono i braccianti immigrati gravemente sfruttati. Coloro che hanno l’obbligo del silenzio mentre lavorano, ma che poi arrivano all’università e davanti a 150 studenti diventano i professori, raccontano la loro storia e danno la loro interpretazione del nostro mondo e gli studenti e le studentesse ascoltano, prendono appunti e poi dialogano con loro. Questa azione sociologica e pedagogica è in sé rivoluzionaria, ed è secondo me la risposta migliore a tutti quelli che oggi praticano razzismo, violenza, discriminazione e sfruttamento, anche di Stato. 

Le andrebbe di lasciare un messaggio alla comunità studentesca, ai lettori universitari?

Il consiglio che do è quello di diventare studenti e studentesse ribelli. Ribelli significa che non acquisiscono semplicemente il sapere, ma lo utilizzano e lo mettono in discussione, per collocare il sapere non più in un’ottica solo prestazionale, solo per superare l’esame o per andare a fare un certo tipo di lavoro, ma per renderlo generativo di un modo diverso di stare al mondo. Socializzare la conoscenza vuol dire usarla per metterci in discussione e mettere in discussione il potere costituito apre degli spazi di libertà, non di regressione. Gli antropologi, e anche i sociologi di fine ‘800, dicevano che il segreto dell’evoluzione è nell’inclusione, non nell’esclusione. L’inclusione si costruisce mediante la dialettica e la dialettica si costruisce mediante un vocabolario comune, che non è parlare la stessa lingua, ma avere lo stesso sguardo sulle cose e la stessa postura dentro quelle cose. Se riusciremo a fare questo la strada è in discesa, se non lo facciamo diventiamo come i polli di Renzo, gestiti da qualcuno che ci condanna a finire nella pentola dell’Azzeccagarbugli di turno.

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