Tra umano e disumano parlando di migranti e rifugiati, intervista a Alessandra Morelli
Alessandra Morelli è stata un’operatrice umanitaria dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) per oltre 30 anni. Ha vissuto la sofferenza e lo sradicamento delle persone che da ogni angolo del mondo cercano rifugio dalle atrocità della guerra e del terrorismo. Grazie alla sua lunga esperienza sul campo, Morelli è una figura di spicco nel campo della protezione internazionale e della difesa dei diritti umani. Oggi, il suo impegno si traduce in una missione di riflessione e sensibilizzazione attraverso la condivisione delle sue conoscenze, per un mondo più consapevole, più giusto, che non volti lo sguardo di fronte alla sofferenza altrui.
In questo articolo si parlerà di deumanizzazione, il processo secondo cui un gruppo di persone viene privato della propria umanità, viene ridotto a categorie astratte (come ‘immigrato’ o ‘clandestino’) o a semplici dati statistici. Il linguaggio, soprattutto quello politico e mediatico, è tra le cose che più alimentano questo sottile – ma estremamente potente – processo discriminatorio, che porta progressivamente a sentimenti d’odio, di paura e di indifferenza verso chi lo subisce.
In un contesto globale in cui le migrazioni sono sempre più frequenti a causa di guerre, persecuzioni, cambiamenti climatici e crisi economiche, la deumanizzazione diventa un pericoloso strumento di disconoscimento dell’altro, che causa una distorsione della nostra percezione dell’altro e dei fenomeni migratori stessi.
Attraverso le parole di Alessandra Morelli, cercheremo di capire cosa vivono e subiscono quotidianamente le persone che scappano da conflitti e che, oltre alle sofferenze fisiche e psicologiche che devono sopportare, spesso subiscono anche il peso della deumanizzazione da parte della società occidentale. L’obiettivo non è soltanto raccontare, ma anche quello di cercare modi per ricongiungerci con la nostra umanità e per non sprofondare ulteriormente nell’indifferenza. Di fronte ad un mondo che ha dimenticato i valori più importanti dell’accoglienza e della solidarietà, l’esperienza di Morelli ci offre l’opportunità di rimanere consapevoli, vigili e uniti.
Le andrebbe di raccontare di cosa si è occupata nella sua lunga carriera di operatrice umanitaria?
Ho lavorato per 30 anni all’Alto Commissariato per i Rifugiati, l’agenzia dell’ONU che si occupa essenzialmente di definire, di regolare e di rispondere alla crisi legata ai rifugiati.
Chi sono i rifugiati? I rifugiati sono persone che a causa di persecuzione, conflitto, orientamento sessuale, idee politiche ecc. vengono additati e possono rischiare la loro vita se non fuggono. La fuga per i rifugiati – lo vediamo chiaramente quando si parla di conflitti – è un modo per recuperare un pezzo di pace e riprendere il soffio di vita, semplicemente oltrepassando una frontiera internazionale. Il mio lavoro, essenzialmente, è stato quello di aprire spazi di asilo dove queste persone potessero approdare in sicurezza, e da lì ritrovare la speranza che è possibile continuare a vivere e aspettare che le situazioni nel proprio paese siano migliori.. “Migranti”, invece, è un termine che viene usato per chi decide di spostarsi dal proprio luogo d’origine per migliorare la propria vita sociale e economica. Tuttavia, oggi i due profili tendono a ritrovarsi nelle stesse strade, in quelli che vengono chiamati corridoi migratori, corridoi spesso illegali. Per ragioni diverse spesso migranti e rifugiati usano lo stesso cammino, il problema è: ci sono le vie legali per fare tutto ciò in massima sicurezza?
Queste sono persone che io definisco fuori luogo, fuori dal loro luogo. Noi lo sappiamo benissimo, tu ed io abbiamo bisogno di uno spazio, di un luogo per poter crescere, per sognare, per poter mettere radici. Ma la guerra spazza via tutto ciò.
Questo luogo ha bisogno di gestione e di mediazione per fare in modo che si apra e perché venga riempito di cura, di attenzione, di accompagnamento dall’educazione alla sanità. Senza accoglienza non c’è spazio. Ecco perché la parola accoglienza e la parola solidarietà sono parole di protezione, sono parole umane che riconoscono l’altro avente pari dignità, nonostante la situazione di difficoltà.
Oggi si parla sempre più di migrazioni miste, proprio perché nello stesso cammino trovi chi viene da paesi dove si ricerca una sicurezza economica e chi invece fugge da guerra e conflitto. Ma ciò non vuol dire che l’uno discrimina l’altro, perché se ci facciamo caso le situazioni si uniscono. C’è chi fugge per il cambiamento climatico, e nelle zone dove c’è cambiamento climatico c’è anche conflitto, guarda il Sahel, oppure il Mali, il Burkina Faso.
I fattori per cui una persona si muove sono molteplici e non sono da demonizzare nel caso si muovesse solo per condizioni economiche: si muove perché viene da un’esperienza che è molto più che mera povertà economica. E poi, diciamocelo: perché un europeo ha diritto di andare a guadagnarsi una vita migliore fuori dal proprio paese e un ragazzo dell’Africa no? Siamo sinceri, il problema dell’accettazione non è verso chi viene dai paesi europei, il problema è solo verso chi è originario dei paesi subsahariani. Abbiamo dimostrato che le grandi crisi si possono gestire, abbiamo visto come abbiamo gestito e come stiamo gestendo la situazione Ucraina con equilibrio e senza l’impressione di essere invasi, cosa che invece non riuscimmo a fare con i ragazzi e le ragazze del Sub Sahara. C’è una percezione dell’invasione molto diversa, da una parte non c’è, da una parte c’è ed è creata politicamente.
Secondo lei quindi, quali sono le principali conseguenze psicologiche e sociali per le persone che vivono questa condizione?
Sono traumi importanti, legati allo sradicamento, all’essere “fuori luogo” per anni anni e anni, specialmente coloro che si mettono in cammino verso una possibilità nuova e si mettono in mano ai trafficanti, incappano in gironi danteschi di violenza e di impatto importante sulla propria fisicità. Torture, pugni, schiaffi, violenze sulle donne in maniera esponenziale.
Lo so perché l’ho visto, ne ho parlato, sono stata con queste persone personalmente e il trauma è dovuto allo sradicamento, quando si è costretti ad uscire dal proprio luogo si entra in modalità sopravvivenza, ma la modalità sopravvivenza non ti da la possibilità di atterrare, di programmare, di sognare, di immaginare e di costruire. Ti fa vivere in ansia, nell’incertezza, in agitazione interiore, vivi di incubi e di ricordi. La maggior parte delle persone hanno avuto un compagno o una compagna di viaggio che non ce l’ha fatta e quindi si vive di trauma secondario, respiri la violenza che hai visto subire all’altro, vivi in una situazione di sopravvivenza, di non-riconoscimento del fatto che sei un essere umano. Sfido chiunque a sopravvivere a questo trauma.
Ecco perché l’accoglienza è un valore umano importante che noi oggi invece stiamo dimenticando, perchè facciamo dell’accoglienza un’invasione della nostra identità, facciamo dell’accoglienza un togliere qualcosa da noi; mentre l’accoglienza è un valore etimologicamente assoluto, l’ospitalità è un valore come la solidarietà, non va vissuta nella propria tribù, la solidarietà – dice Rodotà – è la risoluzione delle crisi umane. Accoglienza, dialogo, inclusione, accompagnamento, cura, sono parole che costruiscono risoluzioni umane. Se le togliamo dal vocabolario dell’umano, ditemi voi se non si scivola nella disumanizzazione. Siamo arrivati a una politica che ti dice chi è umano e chi non lo è, chi ti invade e chi non ti invade, e ti dice come proteggerti da chi ti invade. Stiamo perdendo la bussola. Ed è per questo che oggi siamo qui e siamo contenti di essere qui per fermarci un attimo e resettare i valori.
Per chi non vive direttamente queste situazioni o non si occupa personalmente di queste dinamiche, il modo in cui vengono trattate può avere un forte impatto sulla percezione dell’opinione pubblica, alimentando una certa indifferenza...
Xenofobia e indifferenza. Berlacione in Piccolo Diavolo diceva “il vero peccato mortale non è l’odio, ma l’indifferenza” (Nota: fa riferimento in modo ironico al film Il Piccolo Diavolo, anche se la frase non è presente nella pellicola). L’indifferenza è un sentimento davvero svuotante, l’odio è un sentimento negativo ma in un modo o nell’altro c’è un’interazione, se non altro di lite, ma l’indifferenza ti mette sul piedistallo del giudice e ti fa dire chi è umano e chi no. Per questo recuperare la dimensione etica delle parole è anche un modo di uscire dal sistema violenza e dal sistema guerra. Il riappropriarsi di sé, il riflettere su di sé, non solo aiuta a recuperare il senso della responsabilità nella vita civile, ma sicuramente porta a riconoscere l’altro nella sua piena dignità. Il misconoscimento di sé porta al misconoscimento dell’altro. […]
Avendo vissuto con molta fisicità i maggiori conflitti di questo mondo, mi sono veramente resa conto che tra l’umano e il disumano, l’inumano è una costante dell’umano stesso. Cosa serve per non scivolarci dentro? Che tipo di vigilanza se non il recupero della responsabilità che abbiamo e fare esperienza che davvero siamo tutti parte della stessa linfa umana. Purtroppo abbiamo dato spazio all’individualismo e al progresso a tutti i costi, dimenticandoci le basi della nostra umanità, oggi noi dobbiamo ricominciare a costruire, perché non stiamo più costruendo da un pezzo.
Volevo chiederle, a questo punto, quali possono essere delle azioni concrete sia a livello individuale che collettivo che possono fare la differenza per restituire e ritrovare umanità?
Consapevolezza personale e soprattutto rifiutare qualsiasi tipo di propaganda che scarta l’altro. In prima persona dire “No, io non ci sto”. Oggi non puoi essere tiepida, o stai dalla parte dell’umano o stai dalla parte del disumano, oggi il bivio è talmente netto che devi fare una scelta. E non è vero che stare dalla parte dell’umano e vivere di solidarietà (che oggi è criminalizzata) vuol dire essere una bacchettona, non è vero perchè vuol dire credere nei valori che costruiscono comunità, partecipazione e democrazia.
Questo potrebbe essere un messaggio da lasciare a noi giovani e noi comunità studentesca?
Esatto. La comunità studentesca è il messaggio che apparteniamo tutti alla stessa linfa umana, perché è la cultura che ci porta a questa consapevolezza, se noi che facciamo cultura, non lottiamo a tenere l’etica della parola viva, cosa ci stiamo a fare nelle università?
Sitografia: