LA NASCITA COME PARADIGMA DI UNA RINNOVATA FILOSOFIA
Van Gogh, Ramo di mandorlo in fiore, 1890
Sono principalmente due gli avvenimenti del Novecento che influenzeranno in modo radicalmente nuovo la riflessione filosofica: la tecnica e l’esperienza dei totalitarismi. Proprio a partire da questi presupposti, si instaura la riflessione filosofica di Hannah Arendt, la quale, interpreta questi due nuovi fenomeni come la più compiuta negazione nella storia, della vita e del pluralismo in ambito politico, inteso come potenziale per la libertà.
Arendt, sostiene che, vi sia una sorta di complicità tra la storia della filosofia da Platone in avanti e il totalitarismo; anche se il male totalitario non è un effetto diretto della tradizione filosofica occidentale, esso ne porta alle estreme conseguenza il vizio originario. La fenomenologa sostiene cioè che l’intera filosofia ha cercato platonicamente di realizzare il grande sogno consistente nel sussumere sotto l’unità e l’astrattezza dell’idea la sfera degli affari umani, attraverso l’imposizione di criteri logici o ideali a essa estranei. Arendt riscontra cioè un’incompatibilità tra filosofia e politica: fra la dimensione della vita activa, qualificata dal rischio e la fragilità dell’azione, e la volontà ordinatrice dell’intelletto filosofico che mira invece alla stabilità del sistema. Per esempio, nella Repubblica di Platone, l’idea del bene, è il criterio su cui il filosofo erige l’ordine della polis ottima.
È in questo senso che Arendt inquadra le colpe metafisiche di Platone, il quale concependo il sapere come visione di un tutto organico, perfetto ed eterno, porta a coincidenza verità e unità, rimpiazzando la pluralità del mondo reale. La colpa di Platone, è, in altri termini, quella di avere attraverso l’instaurazione di un principio regolativo a cui l’intera sfera del contingente si deve conformare, soppiantato l’inattesa, imprevedibile e unica vita umana; la quale nascendo, porta sempre con sé qualcosa di nuovo, non riscontrabile negli schemi prestabiliti dell’ideale ordine. La stessa Arendt, con una espressione evocativa, marchia la filosofia metafisica di Platone con l’appellativo di “tiranna del vero”.
Questa nuova e positiva concezione della nascita, letta come autoaffermazione libera da parte di ogni vita che viene al mondo, si apre in totale polemica con la filosofia heideggeriana dell’Esserci come essere-per-la-morte. La nostra pensatrice, afferma la centralità dell’evento natale, dal momento che con ognuno di noi viene al mondo un nuovo inizio, si realizza una dimensione di vera e propria inizialità sorgiva, senza esiti affatto scontati, già in essere e predeterminati. In questo modo Arendt, contrappone ad Heidegger il lemma essere-per-la-vita, definendo la sua filosofia come una filosofia della nascita, in cui è ontologicamente radicata la facoltà d’agire: «Il corso della vita umana diretto verso la morte condurrebbe inevitabilmente ogni essere umano alla rovina e alla distruzione se non fosse per la facoltà d’interromperlo e di iniziare qualcosa di nuovo, una facoltà che è inerente all’azione e ci ricorda in permanenza che gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire, ma per incominciare»(Arendt, 1994, p. 182).
Un’immagine che suggestiona particolarmente la filosofa tedesca, è il bambino alba virgiliano, che rappresenta ogni bambino che nasce, il quale viene al mondo come la prima alba del mondo nascente. Il bambino alba virgiliano giunge per reggere il mondo, averne cura, facendo diventare quindi la nascita un evento da cui dipende la salvezza del mondo. Arendt descrive per cui una libertà autenticamente fondativa, che fa sì che l’uomo proprio perché capace di inizi, non sia mero oggetto di calcolo, ma al contrario capace di agire sottraendosi a qualsiasi equazione matematica. Un uomo co-creatore in grado di operare miracoli in campo politico che continuamente crea e interrompe i processi storici. Precisamente in quel saper e poter iniziare dell’uomo è insita la libertà: il meraviglioso talento di compiere il miracolo dell’agire. Nascere non è un mero evento biologico, il venire al mondo è considerato dalla filosofa tedesca il primo gesto politico tra gli uomini – gli altri chi –, rivendicando per sé un nome, un’identità e il diritto di parola.
Per proteggere la sua ontologia natale, Arendt, si appella alla politica, alla politica ben fatta, la quale garantisce la conservazione della nascita come qualcosa di assolutamente nuovo – novitas – , e ulteriormente è imprescindibile per la realizzazione dell’uomo come essere sociale. La politica intesa da Arendt, è un’amicizia intesa come agire politico e apertura al mondo, è lo spazio del fare le cose insieme agli altri, un’azione di concerto, che salva dalla tentazione di rinchiudersi nel proprio io, in una egoità solipsistica che produce il risultato di gettare via l’umanità da cui ognuno è contraddistinto. La politica, secondo Arendt, non è l’ambito della ripetitività del comando e della fissità dell’azione, bensì sfera dell’agire che costantemente mette in moto qualcosa di nuovo, attraverso il dialogo, la parola e l’azione. Infatti già la civiltà greca aveva coniato l’eguaglianza tra parola e libertà; quando un cittadino veniva ridotto a schiavo perdeva la sua libertà di parola e con essa i suoi diritti. Si riscontra qui la seduzione heideggeriana a proposito del linguaggio come condizione propriamente umana: infatti la fenomenologa tedesca sostiene che «agendo e parlando gli uomini mostrano chi sono, rivelano attivamente l’unicità della loro identità personale, e fanno così apparizione nel mondo umano» (Arendt, 1994, p. 130). Proprio con la voce, l’uomo enuclea la propria personalità, identità, le proprie storie, ma innanzitutto la voce è «funzionale all’agire umano collettivo, quindi politico, poiché veicola l’inizio del singolare nel plurale» (Papa, p. 14). Arendt fa quindi dipendere proprio dalla parola la sopravvivenza della libertà. Nell’agire politico arendtianamente inteso, la parola non è funzionale solo ad esprimere la propria opinione, si tratta invece di dialogare, ovvero agire sempre di concerto con la parola: l’uomo è libero solo nel perfetto intreccio tra azione e linguaggio, senza mai far prevalere una delle due.
L’azione – che per Arendt include anche il discorso –, consiste in ultima istanza anche di atti e parole, ed è la più importante delle tre attività umane – in Vita Activa, Arendt classifica le tre attività umane principali in lavoro, opera e azione –, essendo l’unica e sola attività in grado di mettere in relazione diretta gli uomini senza la mediazione di cose materiali. Azione e discorso, necessitano di uno spazio in cui apparire: L’unicità dell’individuo diviene manifesta solo se disvelata in mezzo ad altre individualità; solo attraverso l’azione politica, definita da Arendt una seconda nascita, l’unicità di ciascuno diventa tangibile e visibile, realizzando sul terreno plurale della politica, il carattere di novità inattesa che la nascita consegna a ciascuno.
Il gesto di nascere, fonda l’agire umano – e quindi la libertà – , in quanto è attraverso il gesto di nascere che l’uomo è capace di produrre un cambiamento nelle cose umane: un nuovo nato rende sempre possibili risposte diverse in quanto unico, da cui bisogna sempre attendere l’inaspettato, l’inatteso, l’improbabile o la rottura degli automatismi storici. Essendo nato, l’uomo può fare, disfare, agire, decidere perciò di volta in volta il corso del mondo, facendosi così fautore di una rinascita linguistica/politica. Per quanto libertà e azione politica siano un diritto di nascita, non sono purtroppo mai definitivamente stabili, ma costantemente minacciate dalla perversione umana, che in modo totalmente a-politico, nega i costrutti dell’agire politico arendtiano. Proprio il Novecento, sarà il triste teatro della negazione della libertà di azione politica umana – in particolare con le ideologie totalitarie e successivamente con l’eugenetica – .
I regimi totalitari, oltre ad un controllo completo sulla modalità di pensiero dell’individuo, tentano arduamente di controllare e far cessare le nascite inattese, le quali, essendo fonte di un nuovo inizio imprevedibile, potrebbero determinare un nuovo ordine di valori in disaccordo con quelli precedentemente imposti. È infatti nella nascita che Arendt ripone tutte le sue speranze per un nuovo inizio all’insegna dell’azione consapevole e politica: «è questa fede e speranza nel mondo che trova forse la sua più gloriosa ed efficace espressione nelle poche parole con cui il vangelo annunciò la “lieta novella” dell’avvento: “Un bambino è nato fra noi”» (Arendt, 1994, p. 182). Il parallelismo con Sartre, si desta immediato, infatti il filosofo francese in un racconto di gusto teatrale scritto nel 1940 nello Stalag XII D nazista di Treviri, esprime il concetto di nascita come «nuova edizione del mondo» (Sartre, p. 36). Bariona, il protagonista del racconto, è il capo di un villaggio non molto distante da Betlemme. Sapendo di non poter contrastare gli oppressori e sfiancato dal peso dei tributi che gravano sull’intero villaggio, propone una soluzione drastica: Contribuire all’estinzione della specie. Il pessimismo di Bariona si scontra con l’incredibile forza di Sara, moglie di Bariona, la donna respinge la proposta del protagonista con un’invocazione carica di emozioni: «Ti prego lascia nascere un bambino, lascia ancora una volta che si tenti una nuova possibilità per il mondo» (Sartre, p.34). In questa citazione si può riscontrare il concetto arendtiano di natalità: l’essere umano, unico e irripetibile nel suo genere, trascende qualunque legge – anche in un contesto dove il male sembra avere preso il sopravvento – , portando novità inaudite, delle quali si fa messaggero semplicemente venendo al mondo. Il rischio che si corre di fronte alla cattiva politica è, quindi per Sartre quello di cedere alla rassegnazione e alla necessità, di rinunciare alla speranza di una nuova nascita. Anche il bambino di Sartre, come quello arendtiano che illumina i tempi bui, viene al mondo quando il cielo sembra deserto. Con i regimi totalitari, sorge un secondo motivo di preoccupazione per Arendt, che consiste nel connubio tra tecnica e controllo sistematico della vita, ovvero, l’eugenetica.
Nel momento in cui, l’uomo moderno, dentro la sua sconfinata volontà di potere, ha trasferito il suo tentativo di controllo del mondo dal materiale della terra al materiale umano, ha così eliminato il presupposto fondativo della libertà, ovvero l’imprevedibilità. Questa brutale prospettiva, diventa realtà nel momento in cui la biochimica e la genetica, iniziano a sperimentare direttamente sull’uomo. Arendt, è spaventata da questo tipo di scienza, una scienza potenzialmente in grado di trasformare l’evento della generazione in un processo programmato e modificabile. In questo senso, si trasforma l’atto autentico della nascita in una tecnica/procedura, che potrebbe diventare un dispositivo di igiene sociale, rispondendo a criteri biochimici precisi di valutazione della vita, per realizzare un progetto faustiano di umanità superiore. Si è così indotti a pensare il valore umano in termini di addizione e sottrazione, escludendo il debole per il forte, l’inferiore per il superiore, l’in-perfetto per il perfetto, promuovendo perciò un perfetto artificio umano, autore di sé stesso. Un uomo, quello di scienza che si appropria del più sacro dei segreti custoditi dalla natura: la creazione della vita; convertendo un evento spontaneo, o meglio, quello che dovrebbe essere un evento spontaneo, in uno falsificato ed artificiale. Va sottolineato che Arendt è tutt’altro che una pensatrice anti-scientifica, riconoscendo il ruolo fondamentale che ha la scienza per l’uomo moderno; teme nonostante questa consapevolezza, un orientamento volto ad una sempre maggiore perdita di thauma. La blasfemia dello scienziato moderno secondo Arendt, nasce dall’insoddisfazione del comprendere le cause in senso aristotelico, con la conseguente pretesa di causare egli a sua volta.
Per concludere, Arendt fornisce alla riflessione del secondo Novecento un nuovo antidoto ai mali del totalitarismo e dell’eugenetica, consistenti nella rilettura della vita umana alla luce della sua libertà esplicativa e capacità d’azione armonica. La libertà del soggetto, totalmente depotenziata nella prima metà del medesimo secolo, può rinascere sotto la categoria della natalità e della sua portata rivoluzionaria e innovatrice, capace come il sole dell’alba di dissolvere le oscure nubi della notte.
Bibliografia:
Arendt Hannah, Vita activa, Bompiani, 1994
Papa Alessandra, Nati per incominciare: vita e politica in Hannah Arendt, Vita e Pensiero, 2011
Sartre Jean-Paul, Bariona o il figlio del tuono. Racconto di Natale per cristiani e non credenti, Marinotti, 2003
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