Libia: risolta la crisi istituzionale, la tregua rimane appesa a un filo
Nel 1911, scagliandosi contro l’atteggiamento coloniale italiano che aveva portato alla guerra Italo-Turca, Gaetano Salvemini definì la Libia uno “scatolone di sabbia”. Tralasciando quella che fu effettivamente una storia di sabbia e sangue, quello su cui Salvemini aveva indubbiamente torto era lo scarso valore della Libia in termini di risorse naturali: ad oggi, la Libia, facente parte del cartello Opec dal 1962, risulta essere uno dei principali produttori di petrolio al mondo, con le sue riserve accertate che risultano essere le più grandi di tutto il continente africano.
Oggi, nell’anno in cui il paese, nonostante il frammentato quadro in cui ancora vive, ha riaperto al turismo per ritrovare una sorta di normalità, il suo settore energetico rimane ancora ostaggio di questa profonda crisi politica.
Da un lato, se esso è stato perno del regime gheddafiano nell’acquistare la pace sociale, permettendo al leader del Libro Verde di governare pressoché incontrastato per poco più di quattro decadi, dal post-rivoluzione il paese pare soffrire in maniera incurabile della cd. “maledizione delle risorse”.
Il settore energetico, dagli anni Cinquanta essenza delle dinamiche di potere del paese nordafricano, è divenuto un vero e proprio “Pomo della discordia” sul piano internazionale, grazie a cui i vari potentati all’interno dello scacchiere si alimentano e si rafforzano.
Le dimissioni di Abdoulaye Bathily, diplomatico senegalese, avvenute lo scorso aprile da capo della missione Unsmil, sono sintomatiche di uno stato in cui torna sì il petrolio, ma non la pace; nella lettera di dimissioni al segretario generale Guterres, Bathily ha sottolineato una totale resistenza nel trovare la pace e una profonda indifferenza da parte delle parti in gioco nei confronti della popolazione civile.
Nelle sue parole “La rinnovata lotta per la Libia tra i suoi protagonisti, interni ed esterni, la sua posizione e le sue risorse stanno rendendo una soluzione sempre più sfuggente”.
La situazione politica oggi
Come largamente anticipato in precedenza, dalla caduta di Gheddafi nel 2011, il territorio libico è divenuto un vero e proprio puzzle, epitome dei cd. “failed states”. Come accaduto per quasi tutte le “primavere arabe”, definite in maniera così profondamente erronea in Occidente, anche in Libia i risultati non sono stati certo quelli sperati. Anzi, più degli altri stati soggetti a tale ventata rivoluzionaria, oggi la Libia paga le conseguenze del vuoto di potere lasciato da 42 anni di duro regime. Infatti, già nel 2014 il paese era ripiombato in un nuovo conflitto civile che aveva frammentato il paese a livello tribale, quindi con una considerevole varietà di schieramenti interni.
Dopo il cessate il fuoco del 2020, la guerra civile è divenuta una “guerra fredda”, anche grazie a una concatenazione di tragici eventi.
Ma il paese è rimasto diviso in due: due parlamenti e due governi; uno a Tripoli, che controlla la parte occidentale del paese, formalmente sostenuto dalla comunità internazionale, con a capo Abdulhamid Dbeibeh, e uno ad oriente, il cui centro nevralgico è la città di Bengasi, de facto dominata dal generale Haftar e i suoi figli.
Tale polarizzazione, se di polarizzazione si può parlare in un quadro così sfaccettato, dove comunque molteplici attori e milizie esercitano un ruolo e una pressione, è divenuta terreno fertile per gli interessi delle grandi potenze, che si sono schierate dall’una o dall’altra parte.
In particolare, la Libia è divenuto l’ennesimo teatro di scontro tra la Turchia e la Francia, con la République volta a sostenere la causa del Khalifa Haftar, mentre Erdogan sin da subito ha rimarcato il suo endorsement al governo di Tripoli con un deciso sostegno militare.
A seguito dell’accordo raggiunto tra le due fazioni di maggiore portata, non vi sono più state violenze su larga scala, e la pace precaria ha retto solo grazie a un altrettanto precario accordo riguardante il perno portante dell’economia del paese: il petrolio.
Le spartizioni di tale risorsa e dei suoi ricchi proventi hanno preservato il fragile equilibrio tra il Governo di Unità Nazionale (Gnu) di Dbeibeh e il Governo di Stabilità Nazionale (Gns) supportato da Haftar.
Altro collante fondamentale di questo impasse è l’unica delle istituzioni non bi-cefale della nazione: la Banca centrale libica (Cbl). Essa provvede, gestendo e spartendo i flussi di denaro con l’estero e pertanto i proventi del petrolio, ad essere l’ago della bilancia in questa disputa.
Il sottile filo a cui è legata la pace, tuttavia, aveva rischiato di spezzarsi l’agosto scorso: intorno a metà mese infatti, le milizie di Dbeibeh hanno circondato il palazzo della Cbl per chiedere le destituzione del decennale governatore Sadiq al-Kabir. I rapporti con Tripoli si erano già incrinati a partire dal 2023, ma il casus belli che ha portato all’esautorazione forzata di al-Kabir è il tacito consenso dell’ormai ex-governatore su un’imposta del 27% sull’acquisto di valuta estera promossa dalla Camera dei rappresentanti libica allineatasi al GNS.
Tale azione ha riscaldato il conflitto, con Haftar che ha ricominciato a mostrare i muscoli e muovere le proprie truppe.
Risolta la crisi, torna il petrolio
Perché però tale evento è importante per il settore energetico e il mondo in generale? Come ben evidente, quando si parla di Libia, è inevitabile parlare di energia: alla fine del 2021, il paese nordafricano possedeva il 3% delle riserve globali accertate, e il 39% di tutto il continente africano. Tali riserve sono di importanza vitale: sempre nel 2021, secondo i dati riportati dalla CBL, il 98% dei proventi governativi faceva affidamento su quelli generati dai giacimenti petroliferi, rendendo la nazione epitome dei cd. “rentier states”.
Non di minor valore i giacimenti di gas, per i quali la Libia risulta essere la quinta forza in Africa.
Le esportazioni di queste due fondamentali materie prime combinate rappresentavano il 73% del valore delle esportazioni del paese nel 2020.
La National Oil Corporation (Noc) è la compagnia energetica nazionale, che con le sue sussidiarie controlla gran parte delle risorse della Libia ed è stata anch’essa divisa per anni in “istituzioni parallele”, vittima delle dinamiche di partizione che hanno dominato il Paese.
Alla luce di tale interdipendenza viene naturale pensare come attorno al settore energetico libico si giochino le più importanti battaglie del paese. Così è stato anche nella crisi innescata lo scorso agosto da Dbeibeh: come reazione a tale manovra, dal 26 agosto è stato predisposto dal governo di Bengasi, che controlla la maggior parte delle risorse petrolifere del paese.
A fine luglio, la produzione di barili giornaliera ammontava a 1,2 milioni di barili al giorno; con
la chiusura dei principali porti e giacimenti petroliferi della Cirenaica, la produzione media nel mese di settembre è stata più che dimezzata, con 458 mila barili al giorno, con un minimo storico di 176 mila nella prima settimana del mese, che non si testimoniava dal 2021, quando la Noc era acefala e in paralisi.
La risoluzione dell’impasse è arrivata a fine settembre, quando le autorità di Bengasi hanno portato alla cooptazione Naji Mohamed Issa Belqasem attraverso un accordo mediato anche grazie all’Unsmil.
Tale notizia è arrivata in concomitanza con la riapertura dei principali giacimenti del paese,
tra cui es-Sider, responsabile per circa un terzo della produzione totale.
Secondo quanto annunciato a metà ottobre dal primo ministro Dbeibeh, la Noc avrebbe raggiunto una produzione di poco più di 1.3 milioni di barili al giorno, sorpassando addirittura i massimali di agosto, con anche la produzione di gas in forte ripresa, sebbene fortemente al di sotto delle vere potenzialità del paese, che soffre di gravi mancanze infrastrutturali che la biforcazione politica di certo non sta aiutando a compensare.
La produzione, in ogni caso, rimane ben lontana dai livelli di 1,7 milioni di barili al giorno raggiunti nel quadriennio tra il 2006 e il 2010.
Conclusioni
Per quanto riguarda il cuore economico del paese, la situazione pare tornata alla normalità: l’oro nero scorre di nuovo, e arricchisce rispettivamente le due fazioni. Difficile, se non impossibile, che tale accordo significhi un ritorno della pace: l’avventata mossa non ha fatto che indebolire il regime di Tripoli, spostando sempre di più l’ago della bilancia verso il Khalifa e le sue forze. Grazie al blocco attuato in questi mesi, attuato grazie alla solidità politica e militare guadagnata dal cessate il fuoco, ha permesso ad Haftar di guadagnare ulteriore terreno rispetto alla fazione opposta, esponendone ulteriormente le criticità: il regime di Dbeibeh è affetto da un forte clientelismo, con una macchina statale che necessita di un notevole gettito fiscale per la propria alimentazione; attraverso il blocco, e la privazione delle principali risorse finanziarie di Tripoli, il malcontento, specie delle milizie armate vicine al Gnu non ha fatto che aumentare.
Inoltre, l’avvicinamento di Ankara al Cairo seguito da importanti investimenti turchi nell’area controllata da Bengasi, dopo che negli ultimi dieci anni i rapporti sono stati ai minimi storici, potrebbe lasciare il governo di Tripoli senza il suo alleato più importante.
In conclusione, si può ben osservare come la Libia sia il più classico degli esempi quando si fa riferimento al paradosso della “maledizione delle risorse”: il petrolio è tornato sì a scorrere, ma non si para il nepotismo, la corruzione e la frammentazione che il paese sta vivendo, e che non gli permettono di sviluppare strade alternative a questa dipendenza.
Non è da escludere che il prestigio guadagnato da Haftar, con il deciso sostegno da parte dei suoi alleati esteri, non possa portarlo a reclamare maggiore potere, data la fragilità rivelata dalla controparte durante l’ultima crisi; riaccendendo il conflitto.
Quello che è certo, è che la situazione rimane fortemente da monitorare: una potenziale destabilizzazione di questo scenario già fortemente precario potrebbe portare l’avvento di un’ennesima crisi energetica e migratoria nel bacino mediterraneo, da cui l’Italia sarebbe in primis affetta.