PASCAL E IL NUOVO COSMO

Viandante sul mare di nebbia, Casper David Friedrich, 1818

La teoria cosmologica sostenuta fino alla fine del Medioevo fu quella di matrice Aristotelica, basata sul geocentrismo. Lo Stagirita sosteneva che al centro dell’universo si trova la terra, intorno alla quale oltre a sette sfere – contenenti rispettivamente la Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove e Saturno –, vi è un’ulteriore sfera ancora più esterna – sfera delle stelle fisse – che è la protagonista della trasmissione del moto a tutte le sfere interne. Questa sfera delle stelle fisse, trasmetterebbe il moto alle altre sfere mediante la sua stessa rotazione, voluto direttamente da Dio – primo motore immobile –. Poiché ogni trasformazione ha una causa, e la ricerca delle cause condurrebbe inevitabilmente ad una retrocessione infinita, all’origine della catena causale deve darsi una causa priva di causa, un atto puro privo di potenza, cioè, in altri termini, una fonte originaria del moto priva di moto. Semplificando, la soluzione a cui arriva Aristotele nel libro XII della Metafisica, è quella di postulare l’esistenza di un primo motore che avrebbe fornito l’inizio del movimento all’universo – movimento ontologico e logico, non temporale –. Tuttavia, per sua stessa definizione, il primo motore è atto puro senza potenza, il che implica la sua immaterialità ed eternità. In questo senso, sorgeva per Aristotele il problema di come una sostanza immateriale avrebbe potuto impartire il movimento ad un sistema fisico; risolvendo la questione credendo che il primo motore conferisse il movimento attraendo a sé ciò che a esso aspira – “come oggetto d’amore”. Così, il primo motore diventa la causa efficiente del movimento, in quanto ne sarebbe in realtà causa finale, poiché conferisce il movimento a ciò che aspirerebbe a ricongiungersi con esso. In questo modo, Aristotele spiega il movimento cosmologico, partendo dal primo cielo in cui sono collocate le stelle fisse, le quali mosse dal primo motore, meccanicamente – Aristotele è debitore della fisica democritea – muovono le sfere celesti più interne, quelle che comandano i movimenti planetari.

Attraverso questa teoria cosmologica, giunge al Medioevo la tesi secondo cui la terra è il punto più basso, il luogo di estrema degradazione dell’universo. Esempio più che calzante di questa impostazione, è la “Commedia” di Dante, nella quale viene raffigurato l’inferno come il punto più basso e decadente della gerarchia ontologica.

La svolta arriva nel 1440, quando Niccolò Cusano pubblica “La dotta ignoranza”, opera che attraverso una riformulazione gnoseologica ed epistemologica, giunge ad una nuova concezione del cosmo, che contiene in germe il principio della cosmologia moderna, e anticipa l’eliocentrismo. La tesi fondamentale, è che la verità è in sé irraggiungibile per la mente umana perché apprende riconducendo l’ignoto al noto; l’uomo non conosce nel vuoto, ma stabilendo nuovi rapporti con ciò che già conosce. Cusano non si limita ad applicare questo criterio gnoseologico sul piano speculativo, ma lo trasporta sul piano teologico, con esito chiaro: se è impossibile per il finito conoscere l’infinito, siccome Dio è per definizione infinito, ne consegue l’impossibilità da parte del finito di conoscere quell’infinito che è Dio, il quale è dunque inconoscibile concettualmente parlando. L’unico atteggiamento possibile che l’uomo può avere nei confronti di Dio è quello della dotta ignoranza: una non conoscenza che è dotta però, perché non deriva da una mancanza di volontà, ma deriva da una impossibilità effettiva. È quindi un’ignoranza che affonda le sue radici nella natura stessa del conoscere. Cusano esprime questo principio attraverso la nozione della coincidentia oppositorum: Dio è quell’ente che è al di là di ogni limitazione, che non è limitato da alcun che, contenente in sé tutto l’essere, ma anche la totalità del non essere – è al contempo essere e nulla –. L’uomo come essere finito non è coincidenza degli opposti – «Assolver non si può chi non si pente,/ né pentere e volere insieme puossi/ per la contraddizion che nol consente»(Dante Alighieri, Commedia, Hoepli, Inferno, XXVII, 118-120) –, se ammettessimo la possibilità di dire cos’è tale coincidenza dovremmo ammettere per l’uomo di uscire dal principio di non contraddizione. Detto questo, è impossibile per Cusano ingabbiare Dio in una concezione come quella della cosmologia tradizionale, visto che ogni definizione è necessariamente anche una limitazione. Infatti definire significa perimetrare, contornare, rinchiudere, ingabbiare, imprigionare. Cusano definisce pertanto Dio come una sfera infinita il cui centro è ovunque e la circonferenza in nessun luogo. Cusano parla quindi di Dio attraverso un paradosso matematico: è una definizione negativa di Dio, proprio perché la sua idea sfugge alle capacità analitiche dell’uomo, presupponendo una nuova visione del cosmo. Se l’universo non ha più un centro – la terra –, ma ogni punto è il luogo del divino infinito, allora la terra non è più né il centro dell’universo, né il sito dell’estrema degradazione del cosmo. Il tentativo del filosofo tedesco è quello di riaffermare la valenza metafisica dell’universo come luogo dell’illimitatezza divina, dove la terra viene ad essere uno degli infiniti centri della luce divina.

Nonostante le diverse concezioni metafisiche, un grande erede di Niccolò Cusano sarà Giordano Bruno, che pur sostenendo una concezione panenteistica dell’universo, difenderà come il pensatore tedesco la teoria dell’infinità dell’universo. Dice Bruno: «Anzi non, atteso che non è cosa naturale né conveniente che l’infinito sia compreso, né esso può donarsi finito, perciochè non sarebbe infinito; ma è conveniente e naturale che l’infinito, per essere infinito, sia infinitamente perseguitato, in quel modo di persecuzione il quale non ha raggion di moto fisico, ma di certo moto metafisico; ed il quale non è da imperfetto a perfetto, ma va circuendo per gli gradi della perfezione, per giongere a quel centro infinito, il quale non è formato né forma» (Giordano Bruno, Eroici furori, Laterza, 1995). Il moto metafisico, è l’immagine dell’infinito che si dà in una caccia eterna, eternamente inseguito ed eternamente sfuggente. L’infinito in sé stesso è inattingibile all’umano, in quanto per dirla con un gergo bruniano, la ricerca dell’infinito presuppone un’infinita ricerca. Quello che si presenta a quei pochi umani che hanno superato il livello sapienziale nella ricerca della conoscenza, non è l’universo, ma una sua contrazione – idea centrale in Cusano, che sostiene che l’universo sia l’essenzializzazione di Dio, o in gergo teologico, una sua contrazione –. Il Dio assoluto per Bruno non si rapporta con l’uomo, ma si presenta solo negli effetti della natura. È nel simulacro, nell’ombra, nello specchio che Dio si comunica in un inesauribile prodursi, in modi e vie infinite. L’uomo non può vedere la natura producente, ma solo la natura prodotta, non vede la natura generante, ma solo la natura generata. In ultima analisi, l’uomo non può conoscere Dio, ma solo ciò in cui esso si dà: in questo consiste per Bruno la felicità umana.

Il Rinascimento che si può far iniziare con Cusano e finire con Bruno, è un periodo storico in cui la questione dell’infinità dell’universo diverrà centrale – per motivi di spazio tralascio gli altri influentissimi autori sulla questione cosmologica –, lasciando un’eredità ricchissima alla prima modernità, specialmente in merito al rapporto che si instaura tra l’uomo finito e l’universo infinito. Tale riflessione farà fatica a venire colta nel secolo della rivoluzione scientifica, dove più che ad interessarsi della condizione esistenziale umana, ci si interesserà a ciò che l’uomo può conoscere con certezza. Emblematico è l’esempio cartesiano, che sottolinea varie volte il suo interessarsi al meccanismo di funzionamento dell’orologio che è il mondo, ma non all’orologiaio. I filosofi-scienziati del Seicento, avranno come obiettivo la spiegazione matematica della natura e dei suoi meccanismi, tralasciando quell’affascinante questione che nel Rinascimento era stata posta. Tuttavia, ogni regola deve avere un’eccezione per essere valida, e la più incisiva eccezione del secolo del Barocco è lo scienziato e filosofo francese Blaise Pascal. Scienziato di formazione, nel trascorrere della sua vita si renderà conto dell’inutilità della scienza in ambito morale. Le scienze, per quanto valide in loro stesse, non contribuirebbero secondo il pensatore francese alla conoscenza delle cose umane. Come dice il pensiero 80, «avevo trascorso molto tempo nello studio delle scienze astratte; e la poca comunicabilità che se ne può avere, me ne aveva disgustato. Quando ho incominciato a studiare l’uomo, ho capito che quelle scienze astratte non sono adatte all’uomo e che, approfondendole mi fuorviavo dalla mia condizione, più io che quelli che le ignoravano». Pascal è tutto tranne che un uomo anti-scientifico, anzi la sua figura è celebre al grande pubblico soprattutto per le sue scoperte in campo matematico, fisico e ingegneristico; nonostante ciò, ritiene impotente la ragione discorsiva nei confronti della fondamentale domanda sul senso dell’esistenza. Decisivo in questo senso è l’argomento della scommessa, nel quale Pascal getta nel cestino tutte le prove razionali sull’esistenza di Dio, per affermare che la conoscenza del fine ultimo di ogni morale può essere conosciuto solo attraverso un’adesione interiore di fede, che non è pura irrazionalità, ma solamente un tipo diverso di ragione, la ragione del cuore. «Se vi è un Dio, egli è infinitamente incomprensibile, perché, non avendo né parti né limiti, non ha nessun rapporto con noi. Noi siamo dunque incapaci di conoscere ciò che Egli è, né se è. Stando così le cose, chi vorrà tentare di risolvere questo problema? Non certo noi che non abbiamo alcun rapporto con lui […]. Io non so chi mi ha messo al mondo, né che cos’è il mondo, né che cosa sia io stesso; mi trovo in un’ignoranza terribile su tutte le cose; non so cosa sia il mio corpo, che cosa i miei sensi, che cosa la mia anima e questa stessa parte di me che pensa quello che sto dicendo, che riflette su tutto e su se stessa, e non conosce se stessa così come non conosce le altre cose. Vedo quegli spaventosi spazi infiniti dell’universo che mi rinchiudono, mi trovo confinato in un angolo di questa vasta distesa, senza sapere perché sono posto in questo luogo piuttosto che in un altro, né perché questo poco di tempo che mi è stato dato da vivere mi è stato fissato in questo momento piuttosto che in un altro di tutta l’eternità che mi ha preceduto e di tutta quella che mi seguirà. Vedo da ogni parte solo infinità che mi racchiudono come un atomo e come un’ombra che dura solo un istante senza ritorno. Tutto ciò che so è che devo presto morire, ma quello che più ignoro è questa stessa morte che non saprei evitare» (Blaise Pascal, Pensieri, Bompiani, 2000, Pensiero 335).

Come detto prima, con la modernità, la terra inizia a venire concepita come un punto disperso nell’universo infinito, presentando l’uomo nella sua debole e superflua finitudine. Pascal avverte profondamente questo stato di abbandono, come dice nel breve pensiero 91: «il silenzio eterno di questi spazi infiniti mi spaventa». Di fronte alla radicale insicurezza esistenziale della vita umana, l’uomo, consapevole della sua finitudine, debolezza e miseria, tenta di non pensare al suo destino e alla sua esistenza ingegnandosi nel costruire da sé ostacoli per non riflettervi – divertissement –. Tutto ciò che risulta come divertimento, secondo Pascal, si presenta come contrario al pensiero, e, illudendo di liberare l’uomo dalle proprie miserie, lo allontana da ciò che lo renderebbe grande. L’uomo cerca pertanto di occupare il tempo con dei “surrogati” del pensiero, per non rimanere a “tu per tu” con la propria natura, che necessariamente condurrebe a porsi le questioni struggenti, ma tuttavia fondamentali per Pascal. Una visione non del tutto estranea a quella pascaliana la si ritroverà nel Novecento con Emil Cioran che, parlando del sonno, sosterrà che si sviluppa una vera contezza della drammaticità del tempo in cui l’esistenza è gettata solo nelle notti d’insonnia, abbandonati a sé stessi e al tempo, privati del farmaco del sonno. La vita umana in questo senso, sia per Pascal che per Cioran, si manifesta nella sua effettiva dimensione angosciosa solo quando non la si riempie con altro. Il punto di contatto tra i due pensatori, consiste nel ritenere che l’uomo per difendersi da sé stesso, occupa il tempo per non pensare al senso della propria esistenza. Eppure, Pascal – al contrario del filosofo romeno –, vuole sfuggire da quel farmaco al quale Cioran tende disperatamente, in quanto solo nel pensiero, e non nella fuga da esso, l’uomo trova la sua dignità – feste, distrazioni, divertimenti mondani, sono tutta una serie di stratagemmi per colmare un vuoto esistenziale –.

Pascal, in questo senso, si fa carico di quel tarlo cui Copernico ha gettato all’umanità. Come dice Pirandello ne “Il fu Mattia Pascal” – nome probabilmente non casuale –, «Copernico, don Eligio mio ha rovinato l’umanità, irrimediabilmente […]. La terra, poverina, stanca di girare, come vuole quel canonico polacco, senza scopo, ha avuto un piccolo moto d’impazienza, e ha sbuffato un po’ di fuoco per una delle tante sue bocche. Chi sa che cosa le aveva mosso quella specie di bile. Forse la stupidità degli uomini che non sono stati mai così noiosi come adesso. Basta. Parecchie migliaia di vermucci abbrustoliti. E tiriamo innanzi. Chi ne parla più? […] Dimentichiamo spesso e volentieri di essere atomi infinitesimali per rispettarci e ammirarci a vicenda, e siamo capaci di azzuffarci per un pezzettino di terra o di dolerci per certe cose, che, ove fossimo veramente compenetrati di quello che siamo dovrebbero parerci miserie incalcolabili» (Il fu Mattia Pascal, pagina 9). Sono proprio quelle che dovrebbero essere “miserie incalcolabili”, tuttavia da sempre elevate al di sopra della loro importanza, che Pascal vuole mettere tra parentesi, per concentrarsi su quello che veramente può rendere grande l’uomo: non le feste, non il divertimento, non la mondanità, non la guerra; ma il pensiero: «L’uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura; ma è una canna pensante. Non occorre che l’universo intero si armi per annientarlo: un vapore, una goccia d’acqua è sufficiente per ucciderlo. Ma quand’anche l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe pur sempre più nobile di ciò che lo uccide, dal momento che egli sa di morire e il vantaggio che l’universo ha su di lui; l’universo non sa nulla. Tutta la nostra dignità sta dunque nel pensiero. È in virtù di esso che dobbiamo elevarci, e non nello spazio e nella durata che non sapremmo riempire. Lavoriamo dunque a ben pensare […]. Con lo spazio l’universo mi comprende e mi inghiotte come un punto; con il pensiero, io lo comprendo» (Pascal, Bompiani, Pensieri, pensiero 264-265). Pascal si dimostra pienamente cosciente di quanto l’uomo sia un punto impercettibile nell’ampio seno della natura, o per dirla altrimenti, di quello squarcio nel cielo che separa la tragedia antica da quella moderna: «Tutta la differenza, signor Meis, fra la tragedia antica e la moderna consiste in ciò, creda pure: in un buco nel cielo di carta» (Luigi Pirandello, Il fu Mattia Pascal, Crescere edizioni, 2011, pagina 124). In questa frase, facilmente mal interpretabile, si trova il succo della riflessione di Pirandello di matrice pascaliana sulla condizione umana. Oreste è il protagonista della tragedia di Sofocle – rappresentante della tragedia antica – che non esita a vendicare la morte del padre Agamennone: è un eroe classico e sicuro di sé, che procede senza ripensamenti verso il suo scopo. Amleto invece, eroe moderno, sa che il padre è stato ucciso e che dovrebbe vendicarlo, ma tuttavia, preso da mille dubbi, esita a farlo. Il punto del discorso, nonché centro della riflessione di Pirandello e Pascal, è che l’uomo antico aveva delle certezze che quello moderno non possiede più. In questo senso, se Oreste vedesse aprirsi sopra di sé uno squarcio nel cielo, molto probabilmente, anzi sicuramente, si comporterebbe come un Amleto. Ma proprio perché l’uomo moderno risulta abbandonato nell’infinito, ora più che mai, l’unica arma a sua disposizione è quella facoltà che il filosofo, nonché scienziato francese, aveva posto a fondamento della dignità di quella fragile canna della natura.

Bibliografia:

Dante Alighieri, Commedia, Hoepli, 1988;

Giordano Bruno, Eroici furori, Laterza, 1995;

Blaise Pascal, Pensieri, Bompiani, 2000;

Luigi Pirandelo, Il fu Mattia Pascal, Crescere edizioni, 2011.

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