Il ruolo sociale
Era il 22 giugno 1633 quando Galileo Galilei abiurò. Le parole suonarono altisonanti nella piazza, ma più forte ancora fu l’impatto che questa abiura ebbe sia sulla vita di Galileo, sia sulle persone che credevano in lui e nelle eretiche teorie astronomiche che professava. È chiaro che è impossibile, e non è neanche il mio intento, descrivere ciò che successe quel giorno, ma ciò che bisogna sottolineare è che l’abiura ebbe anche un altro significato, tacito, sottointeso, che, anzi, forse non è mai uscito dalla penombra dalla quale continua a plasmare una certa impostazione delle discipline. Quel giorno, Galileo mostrò che la scienza, forse aristotelicamente, è fatta per essere studiata: l’obiettivo è avanzare nella conoscenza. Ma, non è tutto qua. Potremmo dire che ciò che Galileo rese evidente, non fu tanto questo, sebbene sia questa l’interpretazione tramandata più spesso dalla narrazione comune, piuttosto fu che non occorre, o forse non bisogna, che la scienza e la società siano in comunicazione. La scienza, da intendere ora come scientia, i.e. insieme delle conoscenze, è qualcosa che non è per il vulgus. L’abiura di Galileo ha, dunque, urlato al mondo che gli scienziati, i ricercatori, possono benissimo mettere tra parentesi il mondo attorno a loro, se questo gli permette di progredire nella scoperta. Quel giorno il ruolo sociale è stato definito più accuratamente e allo stesso tempo privato di uno dei suoi attori principali, la scienza.
Bertolt Brecht nel dramma “Vita di Galileo” riesce a far emergere splendidamente la dialettica tra le diverse spinte che sballottano la scienza da una parte all’altra, assumendo continuamente un ruolo diverso. Nonostante l’opera sia piena di passaggi stimolanti e anche letterariamente notevoli, ho pensato di portare l’attenzione proprio sulle ultime pagine del libro. Galileo si trova in una specie di “reclusione domiciliare”, costantemente sorvegliato dai frati, che fanno le veci dalla Chiesa, come misura cautelare dopo la sua decisione di abiurare. In questo momento è attorniato solo dalla figlia Virginia che lo ha seguito per tutta la vita prendendosene cura. Il suo entourage di “naturalisti”, astronomi, ecclesiastici-scienziati si è allontanato dopo l’abiura cercando terre più libere in cui continuare lo studio. Andrea in particolare, un ragazzo, figlio della casalinga di Galileo, che lo aveva seguito sin dall’infanzia, lo viene a trovare e sorprendentemente Galileo decide di accoglierlo. A questo punto il filosofo gli passa di nascosto un nuovo libro di fisica che negli anni di reclusione era riuscito a scrivere. Sembra che grazie all’abiura egli avesse ottenuto tempo per dedicarsi proprio a continuare le proprie ricerche. Andrea ne è entusiasta e rivaluta la posizione di Galileo, che da “traditore” diventa grande scienziato, disposto a rinnegare la verità pur di arrivare alla scoperta. Eppure, il filosofo pisano non è dello stesso avviso e in un monologo finale sintetizza tutto ciò che si potrebbe voler dire sul ruolo sociale della scienza. Nelle prime righe afferma che:
[…] Anche un venditore di lana, per quanto abile sia ad acquistarla a buon prezzo per poi rivenderla cara, deve preoccuparsi che il commercio della lana possa svolgersi liberamente. Non credo che la pratica della scienza possa andar disgiunta dal coraggio. Essa tratta il sapere, che è un prodotto del dubbio: e col procacciare sapere a tutti su ogni cosa, tende a destare il dubbio in tutti. […]
Tre messaggi trapassano chiaramente da queste parole: la salute della propria disciplina è d’interesse per tutti coloro che ne fanno parte (come il venditore di lana ha interesse che il commercio della lana sia ben funzionante) e questo vale anche per la scienza; proteggere la salute della disciplina necessità di coraggio (così praticare la scienza non può esservi disgiunto); la scienza tratta il sapere e ha come parte costitutiva il dubbio che di conseguenza viene destato nelle persone. Il primo messaggio sembra essere qualcosa di abbastanza scontato, ma, come Galileo mostra, non è così. È possibile che si perseveri nel praticare una certa disciplina senza curarsi del suo stato. Potrebbe essere che io creda nell’alchimia e che ottenga dei risultati sorprendenti, ma che quando mi rivolgo verso l’esterno, ciò che trovi sia solamente un secco rigetto da parte delle persone, perché, senza essermene curato, la disciplina è stata screditata e, così, anche il mio lavoro sembra non valere nulla. Potremmo credere, infatti, che anche se una disciplina non tratta teorie accertate, grazie alla propria salute, abbia una grande forza pubblica e gli venga riconosciuto un importante ruolo sociale. Alla luce di questo, Galileo continua affermando che il coraggio perciò non può essere disgiunto dalla scienza. Affinché una disciplina sia in salute i suoi praticanti devono combattere per essa. Non basta ottenere grandi scoperte, avanzare in maniera indicibile. Non basta nemmeno che da queste scoperte si ricavino dei prodotti che, introdotti nella società, si rivelano utili[GR2] – i.e. il ruolo nella società di una qualsivoglia disciplina. Ciò che bisogna fare è tentare di creare lo spazio affinché la scienza possa sviluppare il proprio ruolo sociale. Galileo ribadisce chiaramente che, per quanto riguarda la scienza e l’acquisizione del sapere, è pericoloso e difficile lottare per la loro salute, l’affermazione del loro ruolo sociale, dal momento che significa combattere affinché il dubbio venga accettato come pratica quotidiana delle persone. Ciò vorrebbe dire ammettere un elemento altamente destabilizzante nella società. In altre parole, comporterebbe che venisse riconosciuto alla scienza il suo ruolo sociale, che è intrinsecamente sovversivo.
Più avanti nel dialogo Galileo precisa che:
[…] I moti dei corpi celesti ci sono divenuti più chiari; ma i moti dei potenti restano pur sempre imperscrutabili ai popoli. E se la battaglia per la misurabilità dei cieli è stata vinta dal dubbio, la battaglia della massaia romana per il latte sarà sempre perduta dalla credulità. Con tutt’e due queste battaglia, Andrea, ha a che fare la scienza. […]
Con queste parole è chiaro che la disciplina non può essere disgiunta dal proprio ruolo sociale e che, con esso, la disciplina si immerge come un’entità essa stessa all’interno della società, un’entità che agisce attraverso i suoi praticanti che da essa ricevono un metodo, un’autorità e delle verità. È per questo che “la battaglia della massaia romana” riguarda la scienza, perché essa è parte della società tanto quanto lo sono gli scienziati. D’altra parte bisogna rimarcare che il modo con cui un uomo di scienza può combattere qua uomo di scienza non è prendendo fiaccola e forcone, quanto piuttosto facendosi tramite della propria disciplina, facendosi portavoce della scienza, in questo caso, ovvero mostrando quell’alternativa possibile che permette al vulgus di alzare la testa. In ogni caso, questo è possibile se il ruolo sociale non viene negato in principio e se non viene malcompreso e trasformato nella sua forma utilitaristica di ruolo nella società. Il primo infatti vede la scienza, o la disciplina in questione, come attore sociale (anche attraverso i propri uomini-praticanti), il secondo invece vede i prodotti della scienza come strumenti nelle mani della società o delle sue componenti. Senza ombra di dubbio dei cambiamenti sociali possono essere una conseguenza anche dell’ultimo caso, ma questi sarebbero delle mutazioni collaterali, che non interpellano la scienza in sé, piuttosto l’utile che, questa volta, è stata essa a portare.
Poco dopo il passaggio precedente sembra possibile trovare proprio questa distinzione:
[…] Io credo che la scienza possa proporsi altro scopo che quello di allievare la fatica dell’esistenza umana. […] Se io avessi resistito, i naturalisti avrebbero potuto sviluppare qualcosa di simile a ciò che per i medici è il giuramento d’Ippocrate: il voto solenne di fare uso della scienza ad esclusivo vantaggio dell’umanità. […]
Utilizzando le parole di Galileo potremmo dire che lo scopo di “allievare la fatica dell’esistenza umana” sarebbe il ruolo nella società. D’altra parte, “fare uso della scienza ad esclusivo vantaggio dell’umanità” farebbe da controparte al ruolo sociale. Da queste descrizioni potremmo aggiungere un’altra caratteristica che distingue i due ruoli: il primo mira ad uno scopo estraneo all’umanità in sé, il secondo si propone di portare vantaggio all’umanità in sé. Kantianamente, il primo caso persegue la letitia, mentre il secondo, nel porre l’umanità come fine, si avvicina ai tratti dell’imperativo categorico.
Posta questa distinzione tra ruolo sociale e ruolo nella società, faremmo bene a chiederci qual è il rapporto tra i due. Prima facie, potremmo voler dire che sono incompatibili, ma guardando meglio ci accorgiamo che il ruolo nella società è inevitabile e che sembra essere direttamente proporzionale a ruolo sociale. Più una disciplina ha un ruolo sociale rilevante, più il suo ruolo nella società diventa considerevole. Tuttavia questa relazione non è simmetrica, non è detto che ad un ruolo nella società significativo corrisponda un ruolo sociale altrettanto importante. Potrebbe essere che i prodotti di una certa disciplina abbiano grandissima rilevanza nella società, ma che la disciplina in sé non goda per niente di buona salute. Prendiamo proprio l’esempio della fisica (idealmente parlando) dopo l’abiura di Galileo: il cannocchiale e le carte astronomiche derivanti dalle nuove scoperte erano entrati prepotentemente nella società, mostrando il notevole ruolo nella società della disciplina, d’altra parte la fisica non aveva un ruolo sociale importante, dal momento che doveva essere praticata pressoché latentemente per timore dell’Inquisizione e perché spesso i cosiddetti filosofi naturali non venivano presi veramente in considerazione nella società. Proprio da questa asimmetria sorge il pericolo che una disciplina perda completamente il proprio ruolo sociale fiaccandosi e cadendo nel dimenticatoio, oppure essendo malvista e incompresa dalla società. In questo secondo caso può essere che venga ‘semplicemente’ denigrata, oppure che il ruolo sociale si appiattisca sul ruolo nella società. Il rischio dell’evaporazione del ruolo sociale è chiaro nelle parole di Galileo:
[…] Tra voi (gli uomini di scienza) e l’umanità può scavarsi un abisso così grande, che ad ogni vostro eureka rischierebbe di rispondere un grido di dolore universale… […]
La scienza, e con essa i suoi praticanti, potrebbe allontanarsi tanto dalla società che da lume della scoperta e del sapere, diventi un’ombra incombente e spaventosa. Per questo, per aver negato alla scienza il suo ruolo sociale abiurando, Galileo conclude amaramente il monologo condannandosi duramente:
[…] Ho tradito la mia professione; e quando un uomo ha fatto ciò che ho fatto io, la sua presenza non può essere tollerata nei ranghi della scienza.
Sono convinto che quest’opera, nonostante sia stata scritta circa settant’anni fa (viene pubblicata nel 1955), ha moltissimo da insegnarci sotto moltissimi aspetti che non si limitano a quanto avete letto finora. In ogni caso ritengo che il problema del ruolo sociale sia estremamente attuale e che si sia complicato enormemente con l’introduzione di un numero incredibile di variabili derivanti da un mondo molto più veloce, interconnesso e globalizzato. D’altra parte credo però che il significato ultimo del ruolo sociale rimanga squisitamente semplice e concreto.
Se prendiamo l’esempio della filosofia, ciò che mi sembra stia succedendo è che la pratica filosofica si sia sempre di più settorializzando, impegnandosi a trattare problemi specifici comuni a altre discipline. Senza voler porre in questione questa evoluzione della filosofia, vorrei però mettere in evidenza che una conseguenza possibile è che, stimolando esclusivamente un discorso tra specialisti, possa (involontariamente?) “scavarsi un abisso così grande” che praticare questa disciplina diventi un’attività completamente distaccata dalla società, dall’umanità in sé. Il filosofo, dalla propria torre d’avorio, scava dei cunicoli per arrivare alle torri d’avorio delle altre discipline, con le quali riesce così a mettersi in contatto. Un contatto che diventa un non-contatto con la società. Così il ruolo sociale arranca e affievolendosi sempre più rischia di nuocere alla disciplina stessa e, forse anche di più, all’umanità in sé, che viene privata di una componente culturale che la vivifica, come l’anima ravviva il corpo.
Tuttavia, la storia non finisce qui, c’è tempo per aprire le porte delle torri d’avorio e per portare alla luce i cunicoli. Probabilmente ciò che servirebbe è un’inversione di rotta: la filosofia dovrebbe puntare nuovamente lo sguardo verso il generale, senza caparbiamente fossilizzarsi nella particolarità ritrovata nella specializzazione settoriale. Ciò vuol dire che dovremmo nuovamente renderci conto che la disciplina in sé, con i suoi praticanti, è anche un organismo vivente, unitario, che è immerso nella società e che gioca un ruolo sociale. Per quanti legami ci possano essere con le altre discipline, essa stessa, prima di tutto, è filosofia, con un suo metodo, una sua autorità e delle sue verità. I filosofi, allora, dovrebbero alzare la testa, cercare di uscire alla luce del sole e riappropriarsi del proprio ruolo sociale, non per sé, nemmeno per la filosofia, ma “ad esclusivo vantaggio dell’umanità”. Che ci sia ancora speranza è certo, sta nella natura delle persone che costituiscono l’umanità, sta nella loro capacità di perseverare. Le ultime parole del filosofo pisano, che guarda ancora al cielo, nonostante tutto, ne sono la prova:
Galileo […] Com’è la notte?
Virginia (alla finestra) Chiara.