CUSANO E LA PACE DELLA FEDE
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Reneé Magritte, La condizione umana, 1935
Nel Settimo secolo, il profeta Maometto fondò la religione islamica nella penisola araba. I suoi discepoli, alla morte del profeta, sottomisero le vicine tribù pagane e la provincia bizantina di Tabuk, arrivando ben presto ad unire gran parte dell’Arabia in un unico ordinamento politico. Da qui l’avanzata araba fu inesorabile: in breve tempo si impossessarono della Siria, di Antiochia, di Gerusalemme, fino a impadronirsi dell’intera Mesopotamia, continuando poi in Egitto ed in Armenia.
Mentre l’avanzata araba non accennava ad arrestarsi, nel cuore dell’Europa, a partire dal Decimo secolo, si presentarono dei nuovi nemici della cristianità: le cosiddette “eresie”. La più famosa tra queste dottrine contrapposte a quella canonica fu quella catara. I catari professarono una dottrina dualista, che contrapponeva al bene spirituale il male materiale, il che implicava che il creato fosse opera di un Dio malvagio: Satana. Poiché tutto il creato era definito come opera della divinità malvagia, una sorta di tranello di Satana, i catari rinunciarono perfino al matrimonio e alla riproduzione, bollati come atti peccaminosi, utili solo ad aumentare il numero degli schiavi di Satana, autore della deviazione dello spirito umano dalle sue inclinazioni rette verso la carnalità e la materialità. L’atto sessuale era profondamente proibito in quanto responsabile della creazione di una nuova persona incatenata nel corpo, definito come una prigione per lo spirito – idea profondamente platonica. Era quindi ai Catari proibito collaborare a quello che veniva marchiato come il piano di Satana: la massima vittoria del bene era caratterizzata dalla morte, ovvero la liberazione dello spirito dalla materialità, in modo tale da potersi ricongiungere con il vero Dio, il quale ha ingaggiato una lotta eterna con la sua controparte malefica. Pur convinti della vera divinità di Cristo, accusavano la chiesa di essere asservita a Satana, per via del suo profondo attaccamento ai beni materiali. Persuasi della deviazione della chiesa Cristiana dalla vera fede, i Catari decisero di fondare una istituzione ecclesiale parallela a quella vigente.
Nel Quattrocento, a seguito di quanto detto fin’ora e della presa di Costantinopoli del 1453, inizia ad entrare in crisi l’idea che la storia sia stata costruita intorno all’avvento del cristianesimo. La percezione del mondo come una civiltà che tiene insieme latinità e grecità, garantita politicamente, socialmente e storicamente, tramonta. E prima di tutto si pone il problema della pace: come è possibile la pace tra i vari popoli se ciascuno con la propria religione esige per sé il possesso esclusivo della verità?
La risposta a questa eterna e intramontabile domanda viene offerta da Niccolò Cusano nell’anno stesso della presa di Costantinopoli. Dopo la presa, avvenuta in Maggio, Cusano passa l’intera estate in velleggiatura a Brunico (Bolzano), impegnato nello scrivere “la pace della fede”.
Qui Cusano riprende il fondamento della sua gnoseologia discussa nella “De docta ignorantia” del 1440, dove asserisce che la conoscenza di qualcosa di infinito è impossibile, perché l’uomo non può che conoscere attraverso delle proporzioni tra noto ed ignoto, e il noto è sempre qualcosa di finito per quanto l’uomo possa ampliarne la conoscenza. L’unica cosa che si può dire è che, se l’uomo ha limiti, Dio non ne ha.
L’opera è un dialogo che si svolge in una sorta di concilio ecumenico sopra i cieli di Gerusalemme, dove si trovano riuniti i rappresentanti di ogni popolo e tutti gli angeli, col fine di discutere della tragicità di ciò che si stava verificando sulla terra. Il primo a prendere parola è l’arcangelo, che apre l’opera con una supplica a Dio, dove lo designa come un Dio nascosto. Infatti la condizione di miseria che definisce l’umanità gli impedisce di riconoscere attraverso il libero arbitrio il senso della propria destinazione. In altri termini, gli uomini non trovano il tempo per ricercare quel Dio che, in assenza di ricerca, è imperscrutabile; di conseguenza, difendono ciò che si manifesta loro come una lunga consuetudine alla stregua di una verità. La tesi principale del discorso dell’arcangelo consiste nel sostenere che ci si allontana da Dio quando non lo si conosce: «Nessuno, infatti, si allontana da te, se non perché non ti conosce. Se ti degnerai di farlo, finirà la guerra, il livore dell’odio ed ogni male, e tutti capiranno che non v’è che una sola religione, pur nella diversità dei riti»(La pace della fede, pagina 27). In questo breve passo tratto dalla supplica si possono ritrovare le due principali linee che guideranno l’opera: da un lato, il primo tema è quello del disvelamento divino, che verrà capovolto nel corso del dialogo da Cusano; dall’altro lato, il secondo tema è quello della “una religio in rituum varietate”, che sarà il principio argomentativo su cui si reggerà l’opera, accompagnato appunto dalla confutazione del punto precedentemente annunciato. I due punti sono complementari, in quanto la confutazione della necessità del disvelamento di Dio all’uomo, confluirà nell’affermazione di quella strana formuletta dallo spiccato sapore aporetico. La questione alla base di quella formulazione si scontra con l’idea per cui le diverse religioni siano affini a pregare e glorificare dei diversi, mentre come sostiene Cusano, gli uomini devono capire che i loro diversi riti sono indirizzati tutti allo stesso Dio: esiste infatti una sola religione nella diversità dei riti. Solo quando si comprenderà questa verità unica e imprescindibile, che consiste nel credere che esiste un solo Dio, ma tanti modi diversi di esplicarlo, vi potrà essere la pace tra le religioni.
L’intrecciarsi delle due direttive si esprimerà al meglio nel prosieguo del dialogo, quando prenderà parola il greco, per antonomasia il rappresentante privilegiato della filosofia, e inizierà a dialogare con il Verbo. L’intervento del greco è all’insegna dello scetticismo: è convinto che ogni popolo difficilmente accetterà una fede diversa da quella che fino ad ora ha difeso con il sangue. Prontamente interviene il Verbo – il Verbo sarà colui che condurrà il dialogo: avrà pertanto un compito maieutico, come aveva Socrate nei dialoghi platonici – , che per sgomberare preliminarmente il campo, sosterrà che non si deve presupporre un’altra fede, ma per tutti la medesima: «Non vi può essere che una sola sapienza. Se fosse possibile, infatti, che ve ne fossero di più, tutte deriverebbero necessariamente da una, perché prima di ogni pluralità v’è l’unità» (la pace della fede, pagina 35). Infatti, la sapienza in quanto tale è una, e la molteplicità discende dall’unità – tipico schema neoplatonico. Questa risposta del Verbo, apparentemente innocua e banale, contiene in sé la questione centrale dell’opera. Il punto centrale è che non serve creare una religione nuova, poiché tutti fanno inconsapevolmente parte della stessa; la sapienza unica è espressa dagli uomini in forma molteplice, in quanto vi partecipano tutti in modo particolare. Per entrare meglio nell’analisi di questa risposta del Verbo, ci si può servire di due immagini molto suggestive: quella dell’icona e quella del prisma. Nel “De visione Dei” – opera non casualmente scritta contemporaneamente a quella in analisi –, Cusano immagina un’icona attorno a cui sono disposti dei monaci, la quale ha la caratteristica per cui ciascun monaco dal suo punto di vista ha l’impressione che essa lo stia fissando. È un’illusione ottica che restituisce un pluriprospettivismo che conduce ad un uni-versus – universo: luogo nel quale tutte le prospettive convergono in un unico centro. Per quanto ciascun monaco possa cambiare prospettiva o luogo di osservazione, conserverà sempre la medesima sensazione di sentirsi osservato nello stesso modo dall’icona. A questa immagine è efficace associare quella di un prisma: possiamo qui immaginare un solido a più facce intorno al quale si radunano più persone. Ciascuna persona dalla sua posizione è impossibilitata a vedere e cogliere il prisma nella sua totalità; infatti, per vedere un’altra faccia si dovrà cambiare prospettiva, ma sempre nell’incapacità di coglierlo e vederlo nella sua totalità. Ciò ci dice che la capacità di percezione umana è sempre e solo limitata ad una parte del tutto; ciascuno nella sua finitudine percepisce quella sapienza in rapporto alla propria potenza – partecipatio dei: ogni singola anima partecipa della visione beatifica in misura corrispondente alla propria capacità.
Se l’angelo nel primo quadro implora Dio di mostrare il suo volto, affinché gli uomini capiscano la loro vera natura, lo svolgimento dell’opera ci dimostra l’opposto: più che mostrare il volto di Dio lo si nasconde. Infatti, il disvelare il volto divino equivarrebbe a rivelarne l’infinita distanza, l’impossibile capacità di rappresentarlo, l’inesauribile ulteriorità. Mostrare ciò alle fedi storiche significherebbe conferirvi lo statuto di assoluta verità, andando ad esasperare la già esagerata considerazione che possiedono di loro stesse; e ulteriormente, desautorare la critica principale che Cusano muove ad esse: ovvero la loro congetturalità, la quale, se sottoposte ad una rivelazione ad opera di Dio stesso, non sarebbe più un’accusa pertinente. Dunque Cusano, servendosi del Verbo, cerca di far penetrare nelle fedi la loro infinita manchevolezza, e l’infinita distanza che le separa da Dio. Cusano è convinto che solo facendo sprofondare le fedi nell’oggettiva inafferrabilità del divino, la diversità – considerata da ciascuno la verità –, potrà riconoscere il suo statuto mediato di congettura finendo per armonizzarsi con le altre forme1. Per semplificare, se l’arcangelo crede che solo attraverso la manifestazione di Dio nel mondo gli uomini capiranno che le loro fedi sono solo delle diverse modalità per esprimere le stesse cose, il verbo cercherà invece di dimostrare ciò mediante la congetturalizzazione e la relativizzazione di esse, riconducendole poi tutte alla medesima fonte. È proprio quella una e medesima fonte che sostanzia la una religio, o se si preferisce, il prisma e l’icona.
La unica religione che ha in mente Cusano è un’idea regolativa meta-storica, che ha l’obiettivo di regolare e informare l’agire intra-storico. Questo fine potrà realizzarsi esclusivamente in un’orizzonte escatologico; tuttavia, la prospettiva di quell’orizzonte diventa l’idea regolativa per orientare l’agire all’interno della storia. Ogni filosofia della storia infatti, rinvia in qualche modo ad un’escatologia: c’è sempre un tale orizzonte che dà forma regolativamente alla storia esistente. Il filosofo tedesco cerca di far prendere coscienza di quell’infinita distanza che per sempre albergherà tra l’unica religione che egli sostanzia come principio regolativo, e le finite, congetturali e prospettiche fedi storiche che abitano il mondo; detto altrimenti, cerca di educare le singole fedi a riconcepirsi come se tra di esse e il vero Dio vi fosse sempre un infinito differire, così come vi è un’insanabile distanza tra il lato che ogni singola fede percepisce del prisma, ed il prisma nella sua totalità. Quindi, le fedi che vorrebbero assolutizzarsi ergendosi a unico e incontraddicibile tentativo di verità, vengono incenerite dall’incommensurabilità di quell’uno –alla trascendentalizzazione della religio una, corrisponde la congetturalizzazione delle fides –. La religio una è infatti palesemente diversa dalle singole fedi storiche: essa è inoggettivabile, in quanto luogo di oggettivazione di tutte le fedi; impredicabile, poiché ulteriore a ciascuna fede storica, pertanto è predicabile solo in termini di eccedenza ed ulteriorità; trascendentale, in quanto struttura implica in tutte le fedi storiche2.. Una religione dunque sciolta da riti, da positività, da temporalità, definibile solo come un’inesauribile ulteriorità, grazie alla quale l’esperienza di Dio si rende possibile.
Cusano non crede quindi che le fedi storiche siano false, sbagliate o errate, ma semplicemente che siano filtrate di parzialità e di finitezza.
L’eredità più autentica dell’opera consiste nello sdoppiamento di piani che ne deriva: da un lato la religione vive sul piano trascendentale – religio una, ovvero il principio regolativo –, e dall’altra sul piano storico – fedi. La religione ovunque implicita slivella pertanto portandosi su di un piano ove essa è a tutte presupposte. Questo doppio piano sviluppato da Cusano contraddistinguerà la modalità attraverso cui la modernità è cercata di venire a capo al problema della pluralità. Solo ponendo un principio di terzietà il dialogo tra le religioni diventa possibile; esclusivamente pensando le fedi storiche come congetture che si armonizzano dentro un’universale comune, ovvero dentro un trascendentale comune, si rende possibile il miracolo che si chiama dialogo. Cusano sarà il grande anticipatore della modernità in un periodo in cui vigeva il dogmatismo religioso, valorizzando il fatto che in ogni binarietà c’è sempre un qualcosa che sta oltre: un terzo non dato che può accogliere ciò che nella binarietà non è contemplato. La religio una cusaniana pone sul tavolo degli attrezzi concettuali a disposizione dell’umanità una nuova logica: quella del terzo incluso.
Bibliografia:
Niccolò Cusano, la pace della fede, 2023, Lorenzo de’ Medici Press
Note:
1) La pace della fede, postfazione (a cura di Roberto Celada Ballanti), pagina 122
2) La pace della fede, postfazione (a cura di Roberto Celada Ballanti), pagina 129
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