Vico e la nuova scienza

Raffaello Sanzio, La Scuola di Atene, 1509-1511

La concezione della storia della filosofia a cui ancora oggi si fa riferimento è quella che fa capo ad Hegel, che intravede in Cartesio e nei pensatori della rivoluzione scientifica i grandi fondatori della filosofia moderna. La scienza moderna si costituisce prevalentemente a partire da due pilastri, che si contraddistinguono dall’abbandono di ogni riferimento antropomorfico o magico alla natura, a favore di un metodo basato sull’osservazione metodica, empirica e matematica della realtà materiale. Cartesio, a partire dalle nuove acquisizioni della neo-nata scienza, fonda una filosofia che replicherà il modo di procedere della geometria, nella quale collocherà il modello di sapere perfetto.

Il metodo geometrico trae origine da alcune verità certe, evidenti ed intuitive, dalle quali per deduzione matematica si procede rigorosamente sotto l’occhio vigile della regola dell’evidenza. La filosofia, per procedere con rigore di scienza doveva anch’essa scorgere un primitivo ed intuitivo punto fermo –cogito – dal quale dedurre poi tutte le successive verità, che fossero di natura fisica, morale, teologica o metafisica. Per sua stessa fondazione, la filosofia cartesiana non poteva accogliere nell’alveo delle verità tutte quelle forme di sapere che non fossero riconducibili a percezione chiara e distinta, facendo pertanto perdere terreno alla storia, alla poesia, alla retorica e via dicendo. Questo filone filosofico, è stato pertanto contraddistinto dall’idea di fondo per cui il luogo ove l’uomo poteva giungere a cognizioni certe, vere e inconfutabili, fosse proprio il mondo naturale. Idea questa, che passa per la filosofia razionalista a cui fa capo Cartesio, e in quella empirista capeggiata da Locke ed Hume, trovando consolidamento nella filosofia kantiana, dove il filosofo tedesco, attraverso la sintesi a priori di empirismo e razionalismo, cerca di tracciare i limiti entro i quali è possibile avere una conoscenza adeguata della realtà.

Dal secondo Ottocento però, nasce in Italia con Francesco De Sanctis e successivamente con Benedetto Croce e in Germania con Willhelm Windelband, una nuova linea interpretativa del pensiero moderno, che trova il suo grande fondatore non più in Cartesio, ma nel filosofo napoletano Giambattista Vico (1668-1744). Vico, già nella prima forma della sua filosofia, critica ferocemente il criterio della metafisica cartesiana e il suo metodo considerato rigoroso poiché fondato sull’evidenza. L’evidenza, non produce nuovo sapere, dato che ogni idea, per erronea che sia, può apparire evidente – l’evidenza non è sinonimo di verità –; e nemmeno al “penso, dunque sono” è legata alcuna verità, visto che vi si può derivare al massimo la constatazione della consapevolezza del pensare, ma non un fondamento per l’espansione del sapere umano. Stabilito che il criterio metafisico di Cartesio non è più valido per procedere nel cammino verso la scienza, Vico contrappone un nuovo fondamento, intuendo per primo che il problema della verità non è di natura metafisica ma gnoseologica, ovvero che il problema è la forma che la verità deve assumere per essere riconosciuta come verità scientifica. Il nuovo principio conoscitivo che Vico pone alla base della scienza è il criterio della reciproca convertibilità del vero col fatto, il che significa che si è in grado di conoscere solo ciò di cui si è artefici, ovvero ciò che è frutto della attività poietica umana. A questo punto possiamo dire che non è il metodo che conferisce la verità agli oggetti su cui si applica, ma sono gli oggetti su cui si applica che conferiscono verità al metodo. Sulla scorta del suo principio gnoseologico, Vico sosterrà che l’uomo non può avere scienza piena nelle cose della natura poiché non ne è autore, a differenza di Dio che, avendo creato il mondo, lo conosce alla perfezione. Questa teoria, apparentemente banale nelle sue implicazioni più prossime e palpabili, conserva in sé una carica esplosiva che se colta, innalza il filosofo napoletano a grande fondatore di una prima forma di filosofia dello spirito e di storicismo: a cosa rivolgerà quindi le sue attenzioni Vico? Dove il suo principio del verum ipsum factum potrà trovare il terreno per applicarsi veramente?

La risposta è presto data: alla storia, al mondo delle nazioni. «lume eterno, che non tramonta, di questa veritá, la quale non si può a patto alcuno chiamar in dubbio: che questo mondo civile egli certamente è stato fatto dagli uomini, onde se ne possono, perché se ne debbono, ritruovare i princípi dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana. Lo che, a chiunque vi rifletta, dee recar maraviglia come tutti i filosofi seriosamente si studiarono di conseguire la scienza di questo mondo naturale, del quale, perché Iddio egli il fece, esso solo ne ha la scienza; e traccurarono di meditare su questo mondo delle nazioni, o sia mondo civile, del quale, perché l’avevano fatto gli uomini, ne potevano conseguire la scienza gli uomini (…). Or, poiché questo mondo di nazioni egli è stato fatto dagli uomini, vediamo in quali cose hanno con perpetuità convenuto e tuttavia vi convengono tutti gli uomini; perchè tali cose ne potranno dare i principii universali ed eterni, quali devon esser d’ogni scienza, sopra i quali tutte sursero e tutte vi si conservano in nazioni» (G. Vico, Scienza nuova (1744), pag. 117-118, ed. Nicolini). La storia, è l’ambito in cui l’uomo davvero riproduce l’attività creatrice di Dio, in quanto crea la storia come Dio crea la natura.

L’opera fondamentale del pensiero vichiano, la Scienza nuova, è un ardito tentativo di ripercorrere l’intera storia, trovando in essa i caratteri, categorie e momenti ideali dello spirito umano nella loro successione necessaria, con l’obiettivo di gettar la giusta luce su ciascun periodo storico e le rispettive forme di espressione spirituali, poetiche, politiche, mentali, giuridiche, religiose, filosofiche; in poche parole, attorno a tutto ciò che concerne l’attività umana nel mondo, che come dimostrato poco fa, poiché è frutto dell’attività poietica dell’uomo e dunque passibile di essere conosciuta nella sua essenza più profonda. La modalità di analisi vichiana della storia si compone di una sintesi tra la filosofia e la filologia. Secondo Vico, per filologia non deve intendersi solamente lo studio delle parole e della loro storia; ma poiché alle parole sono annesse le idee, la filologia è prima di tutto lo studio delle idee e delle immagini che una civiltà veicola. La filologia insomma, abbraccia non solamente la storia delle lingue e delle letterature, ma quella altresì delle creazioni spirituali di una civiltà. Conciliando filosofia e filologia, Vico vuole far comunicare le verità di ragione e verità di fatto coniate da Leibniz, il vero col certo, le idee coi fatti: da un lato cerca di rendere la filologia rigorosa attraverso dei principi razionali e universali tipici della filosofia; dall’altra però la filosofia va colmata di contenuto attraverso il rapporto con i documenti studiati dalla filologia. Croce, ne’ “La filosofia di Giambattista Vico” (1911), riconosce in Vico l’antesignano dell’idea per cui il compito dello sguardo dello storico è riconoscere in ciascuna epoca il rispettivo elemento razionale. Non ha pertanto senso – come del resto nella storia a lungo si è fatto e nell’epoca di Vico si continuava a fare – , cercare un periodo storico più umano degli altri, ma l’obiettivo è ritrovare la luce che illumina ciascuna epoca. Non va cercata una natura umana stabilita e cristallizzata una volta per tutte sulla quale plasmare un ordine etico-politico ideale, né un diritto ideale eterno che si sottrae dall’evolvere storico. Vico accetta pertanto da Platone l’idea di una Repubblica eterna come descritta dal filosofo ateniese nel suo dialogo più celebre, «sconvolgendola [però] da cima a fondo con la soggiunta riserva: che la vera repubblica eterna non è l’astratta platonica, ma il corso storico in tutti i suoi vari e successivi modi, dai bestioni non esclusi a Platone compreso» (Benedetto Croce, La filosofia di Giambattista Vico (1911), pag. 105, ed. Bibliapolis). Questa idea di repubblica eterna, prende in Vico il nome di storia ideale eterna, e comprende in sé come uno schema onnicomprensivo, tutte le varie fasi dell’evolvere storico con i rispettivi costumi, linguaggi, forme poetiche, forme giuridiche etc. Vico valorizza le forme di conoscenza individualizzanti, sviluppa il senso della differenza tra popoli ed epoche, giungendo a maturare una visione antropologica profondamente dinamica, rispetto a quella statica tipica di autori come Cartesio, Grozio e tutti i giusnaturalisti in generale. Tendenzialmente, si fa erroneamente risalire la scoperta dell’alterità alle Lettere persiane di Montesquieu. Prima del pensatore illuminista, però, Vico con la sua Scienza nuova aveva sviluppato un grande senso della differenza, basando la sua indagine proprio sulle differenza tra i popoli.

Vico inizia il suo studio a partire da quel momento dell’umanità in cui di civiltà ancora non ve ne era traccia, da quel momento in cui gli uomini divagavano ancora bestialmente e ferinamente per il mondo. Ma, ad un certo punto, il cielo fulmina, i primi uomini maturano l’idea di qualcosa che li supera, che li trascende: una sorta di Dio fulminante; per placarlo, si rende necessario conformare la propria condotta di vita a questo intento, domando gli istinti e la fierezza, compiendo delle azioni, astenendosi dal farne altre. Da ciò nasce il conato alla libertà: «Con la libertà, è nata insieme la moralità: il timore di Dio ha posto il fondamento alla vita umana. La terra si copre di are; le grotte dei suoi monti, dove il maschio trascina ora la femmina, vergognoso dei concubiti innanzi al volto del Cielo o di Dio, assistono ai primi riti nuziali, proteggono le prime famiglie; il grembo della terra si apre ad accogliere il pio deposito dei corpi morti. Le prime e fondamentali istituzioni etiche – culto religioso, matrimoni, sepolture – sono sorte» (Benedetto Croce, La filosofia di Giambattista Vico (1911), pag. 85-86, ed. Bibliapolis). Per Vico, all’origine della civiltà, non c’è il timore di vedere la propria incolumità distrutta, ma un timore profondamente legato al pudore, caratterizzato da una spinta spirituale e non materiale. L’uomo nelle prime fasi, solo grazie al dormiente pudore che sonnecchiava nel suo cuore poi risvegliato dal fulmine, si rende conto di essere nudo e di doversi cercare un posto e qualcosa per coprirsi dagli dei e dagli altri uomini. Solo grazie a questo sentimento che tinge di rosso le guance dei bestioni, questi costringono le donne nelle caverne per i loro “concubiti carnali”, dando inconsapevolmente origine alla moralità. A Vico interessa sottolineare che l’origine della civiltà è spontanea e non frutto di un calcolo razionale, in quanto la mentalità dei primi uomini non si fonda sulla razionalità calcolante analoga a quella dei moderni. Ciò che muove l’uomo alla sua origine è il sentimento, il senso, l’emozione. L’utilità arriva dopo: innanzi a tutto c’è l’uomo che sente. In questo modo Vico, si allontana dai suoi contemporanei studiosi del diritto naturale sotto diversi aspetti: nel considerare il ruolo dell’utilità nelle prime fasi della vita umana e sopratutto per ciò che riguarda il carattere della religione. Per quanto riguarda il primo punto, i giusnaturalisti hanno il limite di aver guardato unicamente alla giustizia, all’equità e alla moralità come se fossero valori che guidano dall’origine la vita associata: il grande avvertimento di Vico, che guida tutto il suo lavoro, è quello di ammonire coloro che impongono sugli antichi la propria modalità di conoscere, vivere e giudicare. Anche Hobbes, uno dei maggiori teorici politici del Seicento, vede l’uscita dallo stato di natura a partire dalla riconosciuta utilità del vivere associato. Per Vico, invece, l’uscita dallo stato di natura non è una questione di calcolo, ma frutto di una serie di spinte che appartengono alla sfera dell’emotività, del senso e del sentimento. Pe quanto riguarda il secondo punto, il problema per Vico è quello di non riconoscere che la religione è un fatto che, nella sua pervasività, da un lato è fondamento per capire l’agire umano, e al tempo stesso non è restringibile nella forma della religione istituzionale. Infatti, il pudore prima accennato è una scintilla inserita da Dio nell’uomo, una “favilla dell’esser suo”, che nell’abbandonare l’uomo dopo la caduta ha lasciato nel fondo del suo cuore. Questa scintilla, che spiega il timore e quindi la ricerca della vita associata che fonda la morale e il senso religioso, è la provvidenza. Questa, può essere intesa in duplice accezione: in senso soggettivo, che è il senso che gli uomini hanno di una forza che li supera e guarda a i loro destini; in senso oggettivo, intesa come effettiva consistenza di questa forza. La provvidenza intesa da Vico, è tutto tranne che una forza miracolosa e divina che interviene a gamba tesa negli eventi. La provvidenza qui descritta entra in gioco nel sanare lo iato tra ciò che gli uomini perseguono liberamente e i fini provvidenziali che attraverso queste azioni contribuiscono a raggiungere. Gli uomini compiono delle azioni mossi da certi fini particolari, ma facendo ciò, concorrono inconsapevolmente ad un livello ulteriore raggiungendo dei fini a loro inconsapevoli – gli uomini trascinano le donne nelle caverne ignari della conseguente fondazione dei fondamenti della moralità umana . La provvidenza dunque non distrugge la libertà umana, ma la converte in intenzioni che trascendono l’individuo: l’uomo è libero, è protagonista della storia, ma in una forma che non implica sempre la consapevolezza.

Poste le fondamenta della vita associata, ora Vico pone il suo sguardo sulle prime e vere fasi della civiltà, focalizzando il suo studio proprio su queste prime fasi, che sono ai suoi occhi quelle che da sempre sono state maggiormente fraintese. Per potersi davvero avvicinare agli antichi, è necessario capire la loro forma di espressione, infatti, tutti coloro che vi si sono sempre confrontati, hanno sempre ignorato lo scarto tra sé stessi e il passato che andavano ad indagare. Il fulcro della teoria vichiana sulla remota antichità, è che per comprenderla effettivamente, bisogna cambiare la propria percezione a proposito di miti, favole, poesie e religione; questi che, fino alla prima modernità, erano considerati ora come rivestimenti immaginifici ed allegorici per veicolare verità filosofiche, ora come racconti per bambini, ora come mero diletto, ora come puro sfoggio d’ingegno, non accorgendosi che esse contenevano in sé la modalità stessa attraverso cui gli antichi esprimevano la propria immagine del mondo. La conoscenza, per il filosofo italiano, non sta solo nella ragione, ma anche nella fantasia, nell’immaginazione e nel senso. Quando per esempio Giove viene considerato padre degli dei perché possiede il dominio sul fumine, ciò non va affatto letto in chiave allegorica, in quanto secondo Vico questo è l’esatto modo mediante il quale gli antichi elaboravano il timore nei confronti del fulmine. Quelle che a noi possono sembrare delle strampalate favole sono per Vico la storia degli antichi, in quanto veicolo della loro rappresentazione del mondo, e al contempo, un embrionale tentativo filosofico di conferire significato causale agli eventi circostanti. La poesia, il mito, non nascono come veicolo di verità filosofiche – poiché i primi uomini erano tutto tranne che razionali e ragionevoli –, ma per necessità di natura. In ultimo, per il peso conferito da Vico a queste forme di sapere, gli appartiene senz’altro il titolo di grande scopritore dell’estetica, intesa come scienza della conoscenza pre-razionale e fantasiosa. La cultura della prima modernità, spogliava gli antichi di tutti i loro tratti caratteristici di esseri ignoranti, superstiziosi, feroci, pre-razionali, fantasiosi e profondamente calati nella corporeità. C’è dunque nella storia del pensiero una tendenza alla falsificazione dell’eroe primitivo secondo Vico, distorcendola attraverso la proiezione della figura del saggio virtuoso dei tempi culto su di esso. In questo senso, una delle maggiori acquisizioni di Vico riguardo alle prime età dei popoli, è la considerazione della figura di Omero. L’Omero descritto fino all’epoca di Vico, è un pensatore saggio, con perizia in tutte le scienze e contraddistinto da un fine intelletto filosofico, quando tutti gli eroi da lui descritti si mostravano di cortissimo intendimento di vastissima fantasia, di violentissime passioni. Omero non è pertanto un filosofo e questo è ampiamente confermato dal concetto di virtù incarnato dai suoi personaggio, uno tra tutti, Achille. Interessante pare anche a Vico la profonda differenza tra Achille stesso ed Ulisse, come se, Iliade ed Odissea, fossero due poemi distantissimi che appartengono a luoghi e tempo diversi. Ma la conclusione a cui arriva Vico, non è semplicemente che Omero non è mai esistito, ma che a sua volta omero è un carattere poetico della civiltà barbarica. Vico, in altri termini, trasforma Omero da individuo in carne ed ossa in un’universale fantastico; Iliade ed Odissea, sono due poemi che rappresentano il sedimento di una società nel suo insieme, ovvero il prodotto di collaborazione dell’intero popolo greco; a un singolo poeta, va sostituito un intero popolo poetante. L’operazione vichiana, per semplificare, è stata quella di prendere i due grandi poemi dell’età greca arcaica, leggendoli per quello che veramente sono, e non per quello che i moderni pensavano fossero sulla base della loro condizione di uomini che ormai dispongono della ragione. L’età del senso e della fantasia non è tuttavia il punto d’approdo della parabola umana, ma è anzi propedeutica alla sua forma successiva: l’età degli uomini, l’età di Platone e Aristotele, l’età della filosofia e dei governi popolari. Tuttavia secondo Vico, oltre di essa, non è più possibile andare: l’ingentilimento dei costumi, la caduta della forza in favore della legge, la delicata benevolenza dell’uomo di ragione, non può che corrompersi ponendo fine alla civiltà.

Il meccanismo descritto da Vico è quello di un corso intrapreso da tutte le civiltà, che passando dal sentire senza avvertire, all’avvertire con animo perturbato e commosso, giunge alla riflessione della mente pura, oltre la quale non è possibile andare, ponendo termine alla civiltà, e l’inizio alla barbaria della riflessione, che sancisce la ricaduta nella ferinità. Questa barbaria non è però quella originaria: il ciclo descritto da Vico non è l’eterno ritorno, ovvero l’eterna ripetizione dell’uguale; non è il ritmo descritto dagli stoici che dopo la deflagrazione tutto ritorna a ripetersi uguale a sé stesso. La grande acquisizione filosofica dietro alla concezione vichiana, detta dei ricorsi, è che dopo la caduta si riparte da una barbaria che non è una partenza da zero come la prima volta. La barbaria ritornata è una barbaria che, pur avendo perso le giovanili e fiorenti forze della prima civiltà, ha sopra le spalle il peso della storia del passato, e con essa tutta una serie di cognizione che favoriranno un nuovo processo di crescita. L’esempio più a portata di mano per Vico di barbaria ritornata o barbaria della riflessione è il Medioevo. Ci sono tantissimi motivi che fanno pensare a Vico che il Medioevo sia un periodo di regressione della civiltà rispetto al precedente periodo imperiale: dopo la caduta dell’impero, ci si chiude in città e luoghi elevati, così come avvenne dopo il diluvio universale. Di conseguenza, ritorna l’assetto feduale che non è una innovazione del Medioevo, ma il rinverdimento di un assetto già da Vico scovato nell’epoca romana: come nella primigenia Roma vi furono patrizi e plebei, così nel Medioevo troviamo i feudatari e i servitori della gleba. Da ciò consegue che la prima forma politica dopo l’impero sarà l’aristocrazia, ma sopratutto, il ritorno dei linguaggi geroglifici e poetici. Secondo Vico, nel Medioevo rinasce un linguaggio barbarico e geroglifico —l’utilizzo dell’araldica è per Vico un’indicatore di una regressione del linguaggio a quello dell’epoca egizia— che sancisce una netta regressione rispetto alla scrittura verbale. Vico propone un ardito confronto tra due grandi pensatori dell’epoca barbarica e fantastica di due civiltà diverse: Omero e Dante. «Nell’Inferno Dante impiegò il suo collerico ingegno e tutto il grande della sua fantasia nel narrare tante ire implacabili e nel rimembrare un gran numero di spietatissimi tormenti, degno riscontro alle tante forme feroici di morte descritte da Omero [nell’Iliade; mentre]l’Odissea, che celebra l’eroica pazienza di Ulisse, trova rispondenda nel Purgatorio, spettacolo di pene tormentose sofferte con inalterabile pazienza, e nel Paradiso, dove si gode infinita gioia con una somma pace dell’animo» (Benedetto Croce, La filosofia di Giambattista Vico (1911), pag. 210, ed. Bibliapolis). La più sostanziale somiglianza tra i due è la loro sublime poeticica, e la grandezza conferita dalla rigorosa fantasia. Certo che Dante fu dottissimo di scolastica e teologia, ma in ciò più che la sua forza si nasconde la sua debolezza. Se Dante non avesse saputo di scolastica o di latino, sarebbe uscito un grande poeta barbarico da contrapporre in tutto e per tutto ad Omero – la sua sublime fantasia è limitata dalla sua conoscenza filosofica teologica –. Il punto è che il ricorso non è una semplice riedizione del passato, ma un riprodursi di uno schema riempito di contenuti nuovi: Dante riproduce delle caratteristiche di Omero pur non essendolo.

Sembra quindi implicitamente essere sottesa l’idea per cui vi sia tra un corso storico e un altro, una sorta di progresso. Vico, non si oppone affatto al progresso, pur non potendone avere un concetto. Secondo la ricostruzione della filosofia vichiana di Croce, in ultimo Vico non dispone di un concetto di progresso perché non può disporre di una teoria dell’azione individuale, che permetta di inquadrare le azioni degli individui nella marcia complessiva del genere umano; non sa come rappresentarsi concettualmente il concorso delle azioni dei singoli rispetto al progresso complessivo della storia; non è in grado di comprendere il ruolo che ciascun fatto o individuo, mettendo la propria nota nel poema della storia, svolge. Croce sottolinea che Vico scopre la storia e l’immanenza, ma anche che per poter sviluppare una dottrina del progresso – come l’astuzia della ragione di Hegel o lo storicismo assoluto di Croce stesso –, avrebbe dovuto mettere a repentaglio la fede e la trascendenza, seguendo fino in fondo la strada da lui stesso tracciata. Per assegnare a ciascun individuo e popolo il proprio ufficio, e diventare così con un secolo di anticipo un’idealista, capace di andare addirittura oltre all’idealismo stesso, Vico avrebbe dovuto innalzare la sua divinità provvidente ad una divinità diveniente: Dio stesso doveva diventare qualcosa che fa parte del cambiamento. «Il progresso, dedotto dalla provvidenza immanente e introdotto nella Scienza nuova, avrebbe accentuato la differenza nell’uniformità, il sorgere del nuovo a ogni istante, il perpetuo arrichimento del corso a ogni ricorso; avrebbe cangiato la storia, da un rassegnato percorrere e ripercorrere il solco tracciato da Dio sotto l’occhio di Dio, in un dramma che ha in sé la propria ragion d’essere; avrebbe trascinato nelle sue spine l’intero cosmo e reso reale il pensiero dei mondi infiniti. Il Vico, all’affacciarsi di questa visione, arretra pauroso, si ferma ostinato, e il filosofo è sostituito in lui dal credente»(Benedetto Croce, La filosofia di Giambattista Vico (1911), pag. 137, ed. Bibliapolis). Se Vico non si fosse fermato, seguendo fino in fondo la strada dell’immanenza, avrebbe trasformato un Dio che fa la storia in un Dio che è storia. Ciò nonostante, le idee di Vico saranno tutte nel giro di un secolo recuperate: la provvidenza come razionalità oggettiva della storia, la coscienza morale come spontaneo pudore, la connessione tra poesia e storia, il superamento della religione e del mito come allegorismo, la fondazione dell’estetica, la convertibilità del vero con il fatto seguito dall’inscindibile nesso di filosofia e filologia e molte altre ancora. Questo fa di lui il grande fondatore di quella linea della filosofia moderna che si riconosce come scienza delle operazioni poietiche dell’uomo nel mondo.

Bibliografia:

G. Vico, Scienza nuova (1744), ed. Nicolini;

B. Croce, La filosofia di Giambattista Vico (1744), ed. Bibliapolis.

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