Cronaca di un precariato annunciato: cos’è la Riforma Bernini e perché riguarda tutti gli studenti

Al termine del proprio percorso universitario, la possibilità di candidarsi a un dottorato di ricerca rappresenta una prospettiva intrigante per molti studenti. Presentare il proprio progetto, verosimilmente su un tema d’interesse, condurre autonomamente la propria ricerca ed essere pagati per farlo: sembrerebbe la traduzione pratica di quel detto che ti insegnano da bambino, “trasforma la tua passione in un lavoro, così non lavorerai più nemmeno un giorno della tua vita”. Anche chi scrive, ormai agli sgoccioli della sua laurea magistrale (si spera!), è tentato da questa opportunità. Tuttavia, spesso mi ritorna in mente una frase detta da un collega con qualche anno in più di me, che paragonava il dottorato di ricerca alla vita monastica. La prima volta non diedi molto peso a questa affermazione, ritenendola esagerata. È davvero necessaria una vocazione così forte per intraprendere questa strada, al punto da sacrificare aspetti significativi della propria vita per dedicarsi unicamente allo studio?

Anche se in un mondo ideale la risposta dovrebbe essere negativa, purtroppo il paragone non si discosta eccessivamente dalla realtà. Chi intraprende il percorso accademico rischia di passare decenni nel limbo della precarietà, tra assegni di ricerca e contratti a tempo determinato, rimbalzando da un ateneo all’altro in cerca di opportunità lavorative. In questo contesto, pianificare il futuro a lungo termine diventa impossibile, poiché la precarietà lavorativa si intreccia inevitabilmente con quella economica, abitativa e relazionale. Come si può pensare di costruire una famiglia se non si sa dove si vivrà tra un paio d’anni o se si avrà un contratto stabile?

Come se non bastasse, la permanenza nel purgatorio del precariato è particolarmente lunga in Italia rispetto ad altri paesi europei. Come riporta L’Espresso, in Francia e in Germania la stabilizzazione avviene entro i 32-35 anni, mentre in Italia la media supera i 45. Inoltre, per le ricercatrici italiane il percorso è ancora più insidioso, poiché spesso si trovano costrette a scegliere tra maternità e carriera, immerse in una cultura patriarcale che concede solo agli uomini di anteporre il lavoro alla cura dei figli.  

Per questi (e altri) motivi, giovedì 20 marzo gli Stati di agitazione dell’Università e le Assemblee Precarie Universitarie hanno manifestato contro il Ddl 1240, meglio noto come Riforma Bernini, una controversa proposta di legge che – se approvata – aumenterebbe ulteriormente il livello di precarizzazione del lavoro universitario. Sebbene la riforma sia stata sospesa il 20 febbraio in seguito alle numerose proteste di associazioni di dottorandi e sindacati, i precari negli atenei italiani continuano a lavorare in un clima di forte incertezza, con profonde conseguenze per la qualità della didattica e per la salute dell’Università come luogo di produzione di conoscenza critica e indipendente. Ma quali sono le proposte incluse nel Ddl e perché sono così dannose per gli atenei italiani? Soprattutto, perché riguardano tutti gli studenti, non solo dottorandi e ricercatori precari?

Più tagli, più privatizzazioni: breve storia (triste) del precariato accademico

Per comprendere il ruolo del Ddl 1240 e i rischi a esso connessi, è necessario fare un passo indietro e situarlo storicamente. La Riforma Bernini, infatti, rappresenta solo la punta dell’iceberg di un processo di definanziamento delle università italiane, con il conseguente aumento della precarizzazione del personale accademico.

Negli anni Novanta, la Riforma Berlinguer introdusse il cosiddetto sistema del “3+2” (laurea triennale e magistrale), oltre ai crediti formativi e a una maggiore flessibilità nei percorsi di studio. Se, da un lato, questa riforma allineò l’Università italiana agli standard europei, dall’altro portò a un’eccessiva frammentazione degli insegnamenti, con un impatto negativo sulla qualità della didattica. Per gestire l’ampliamento dell’offerta formativa, gli atenei italiani preferirono assumere un numero crescente di docenti a contratto e ricercatori precari, con retribuzioni inferiori rispetto ai docenti di ruolo, abbracciando un modello gestionale di tipo aziendale. Di conseguenza, molti ricercatori si trovarono costretti a occuparsi prevalentemente della didattica a scapito della ricerca, complicando ulteriormente la progressione di carriera.

Durante il governo Berlusconi IV il sistema universitario italiano raggiunse il punto di non ritorno. Con la Riforma Gelmini del 2008, infatti, si decise di ridurre di 1,5 miliardi di euro il Fondo di Finanziamento Ordinario delle università pubbliche. Inoltre, fu imposto un blocco del turnover del personale accademico: per ogni cinque docenti pensionatisi, gli atenei potevano assumerne solo uno o due. Non solo: la Riforma sostituì la figura del Ricercatore a Tempo Indeterminato con quella a Tempo Determinato di tipo A (RTD-A) e di tipo B (RTD-B), senza garanzie di stabilizzazione una volta scaduto il contratto. In breve, l’Università italiana si trovò con sempre meno finanziamenti pubblici, dipendendo sempre più da aziende e fondazioni non statali, subordinando così la propria ricerca agli interessi di enti privati. Le nuove figure introdotte dalla Riforma, insieme al blocco del turnover, esacerbarono la precarizzazione, costringendo i ricercatori a orientare i loro studi verso temi più ‘appetibili’ per i finanziatori, invece di seguire i loro reali interessi scientifici.

È in questo continuum che si inserisce la Riforma Bernini. Il governo Meloni, infatti, ha proposto ulteriori tagli al Fondo di Finanziamento Ordinario, pari a oltre 1,2 miliardi di euro in quattro anni. Come giù accaduto con la Riforma Gelmini, questo ennesimo definanziamento pubblico rappresenterebbe il colpo di grazia per l’integrità del sistema universitario italiano, spalancando le porte a finanziatori privati sempre più connessi al mondo militare. La logica perversa del ‘doppio uso’ – il principio per cui alcune tecnologie e ricerche possono essere impiegate sia per scopi civili che militari – si è propagata a macchia d’olio nelle università italiane, coinvolgendole (e rendendole complici) negli attuali scenari di guerra internazionali.

Per quanto riguarda il precariato universitario, il Ddl Bernini propone l’istituzione di quattro nuove figure di ricerca, che si affiancherebbero a quelle già esistenti: il borsista junior, il borsista senior, il ricercatore con contratto post-doc, il professore aggiunto. La logica è sempre la stessa: trasformare i ricercatori in manodopera a basso costo, facilmente sostituibile, alleggerendo i bilanci delle università proponendo contratti a tempo determinato, privi di ferie, malattia, tredicesima, e senza diritti come la rappresentanza sindacale e il diritto di sciopero. Il tutto con il benestare dei rettori, i quali, contenti di poter scaricare il peso dei tagli sui precari, hanno chiesto alla ministra Bernini di rilanciare il disegno di legge. Dalla prospettiva dei precari, invece, l’istituzione di queste nuove figure rischia di avere conseguenze non solo economiche e psicologiche, ma persino esistenziali. Immaginate di dedicare dieci anni della vostra vita a un progetto di ricerca, di considerarvi a tutti gli effetti dei ricercatori, ma di non essere riconosciuti come tali dalle istituzioni. In un sistema in cui essere categorizzati (e categorizzabili) è la norma, e in cui le categorie rispondono a logiche economiche e di potere che gravano sulle spalle dei più deboli, il rischio più grande è quello di smarrire la propria identità, ritrovandosi definiti da un’etichetta imposta dall’alto e nella quale non ci si riconosce.

Perché riguarda tutti gli studenti?

Arrivati a questo punto, chi intende candidarsi a un PhD si sentirà, comprensibilmente, più coinvolto. Al contrario, chi non vuole proseguire in accademia dopo la triennale o la magistrale potrebbe percepire la questione come meno rilevante. In realtà, le politiche di definanziamento proposte dal governo hanno conseguenze tangibili per tutti gli studenti universitari, indipendentemente dal corso di studi. Prima di tutto, i tagli ai fondi statali obbligano gli atenei a cercare nuove fonti di finanziamento, oltre agli investitori privati. In questo senso, le università scaricano i costi dei tagli sugli studenti attraverso l’aumento delle tasse universitarie e la riduzione dei fondi destinati alle borse di studio, gravando sulle fasce economiche più deboli. Inoltre, con meno finanziamenti, gli atenei devono ridurre l’offerta formativa, impoverendo la didattica attraverso l’eliminazione dei corsi con meno iscritti o meno ‘strategici’, che non attraggono finanziamenti privati. Un discorso simile vale anche per il personale tecnico-amministrativo: molte mansioni sono esternalizzate ad aziende private, spesso con condizioni contrattuali peggiori, con un calo nella qualità dei servizi erogati. Non solo: sebbene i tagli colpiscano tutte le università, i grandi sconfitti sono gli atenei del Sud Italia, che non dispongono del tessuto industriale e dei fondi regionali del Nord. Questo contribuisce ad ampliare il divario tra università del Nord e del Sud Italia, aumentando le disuguaglianze su base territoriale e costringendo sempre più studenti meridionali a trasferirsi, sebbene i costi crescenti rendano questa opzione sempre meno accessibile.

In conclusione, è necessario riflettere sul tipo di Università che si sta delineando. Tutti questi fattori contribuiscono all’involuzione dell’Università da istituzione pubblica al servizio della società a strumento nelle mani di investitori privati con interessi economici. Quanta libertà di scelta rimane agli studenti se l’offerta formativa è sempre più modellata dalle logiche di mercato, piuttosto che dall’interesse scientifico o sociale? È questa l’Università in cui vogliamo vivere e studiare?

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