Quando due pianeti diversi si incontrano – un viaggio tra scienza e musica

Sono quasi le 21.00. Quando arrivo all’ingresso dell’Auditorium del Conservatorio Bonporti, si è già radunata una folla di persone in attesa. Gente di ogni età, anche se sono tanti gli studenti ventenni come me. E non potrebbe essere diversamente: il festival co.scienza si rivolge alle leve del futuro; e come scrivono gli organizzatori, la missione è “connettere giovani, città e scienza”. D’altra parte penso sia un bene che tutta la popolazione sia partecipe alla vita culturale e alle iniziative sul territorio.

La manifestazione è aperta a tutti, dal semplice curioso al laureato. L’evento di questa sera unisce due mondi apparentemente agli antipodi: la musica e l’astronomia. Simone Iovenitti, ideatore dello spettacolo nonché presidente di PysicalPub (main event sponsor) usa il termine “viaggio esperenziale” per definire il suo progetto. Il titolo è: Across the Universe – Un concerto tra l’astrofisica e l’armonia. È il primo di una serie di incontri che terranno impegnata la città di Trento dal 21 al 30 di marzo.

Nonostante il connubio tra scienza e arte possa sembrare strano, le discipline hanno diversi punti in comune. Così come gli astronomi hanno adottato nel corso dei secoli delle scale per misurare le distanze, allo stesso modo i compositori da Bach a Mozart, da Beethoven a Stravinsky, hanno usato delle scale di note per creare delle melodie.

Simone parte dall’osservazione degli astri, come le stelle e la luna, spiegando come nel corso del tempo si sia cercato di determinare la loro distanza dalla Terra. Alcune regole possono poi trovare una corrispondenza nella teoria musicale. Queste “leggi della musica” sono descritte, o meglio espresse attraverso vari esempi musicali. Oltre allo stesso Simone al pianoforte, suonano Stefano Merighi al clarinetto, Marco Doldi al contrabbasso, Annachiara Maggio alla chitarra ed Enrico Iovenitti alla batteria.

La natura degli argomenti trattati non è di facile comprensione. Sarà per l’orario, oppure per quel tremendo ricordo delle verifiche di fisica e matematica. Tuttavia Simone non appare come il tipico e noioso docente di una scuola. Anzi, si muove sul palco con un’attitudine più vicina a quella di un oratore, piuttosto che quella di un professore.

Simone sa il fatto suo e sembra proprio a suo agio mentre illustra concetti che lo affascinano talmente tanto da fargli brillare gli occhi. Non deve essere stato complicato per lui visto che, come ha tenuto a precisare al pubblico, la sua formazione è innanzitutto quella di un ricercatore, anziché quella di un musicista.

Lo spettacolo, dopo una scialba presentazione da parte di un ragazzo del comitato organizzativo (a cui non manca l’energia), si apre con il primo intermezzo musicale. Al centro c’è Simone alla tastiera, alla sua destra il contrabbasso e la batteria, alla sinistra il clarinetto e la chitarra elettrica. Il brano è molto semplice. La musica cambia letteralmente registro quando Simone si alza e comincia a spiegare, partendo dal quesito che per millenni ha ossessionato i popoli di ogni epoca e cultura, dagli antichi Greci agli astronomi del Novecento. Come si possono calcolare le distanze degli oggetti astrali?

Il problema delle misure è un tema tuttora dibattuto. Simone incarna l’entusiasmo che per decenni ha guidato i ricercatori nelle loro scoperte. Lo si capisce da come parla e gesticola con disinvoltura, affrontando con grande facilità i complicati passaggi che hanno portato infine a dei risultati nel campo della fisica e dell’astronomia.

Non lo nego: fatico a seguire (e non penso di essere il solo), ma l’argomento mi attrae. D’altronde Simone ha un savoir-faire da intrattenitore. Anche nel modo in cui coinvolge il pubblico, affidandosi alle immagini proiettate sullo schermo. Con la medesima funzione, si inseriscono gli interludi musicali volti a snellire lo spettacolo.

(Anche se, concedetemi una piccola critica, lo spazio concesso alla musica è davvero risicato, di sicuro nulla in confronto alle misure cosmiche di cui si parla questa sera).

Prima viene illustrato una teoria legata all’astronomia, poi si confronta il metodo applicato dagli scienziati con aspetti similari nel linguaggio musicale. Il primo esempio è una composizione dello stesso Simone, Emiolian Walk (notate il gioco di parole con emiola, uno dei concetti musicali citati). Nonostante non sia facile riconoscere l’effetto (l’emiola è un mutamento della percezione di ritmo senza la modifica della struttura metrica), il pezzo ha uno stile di disneyana memoria (film della Pixar quale Monster & Co.) in grado di regalare un po’ di spensieratezza.

Potrebbe risultare più difficile stare al passo del viaggio che ci porta sempre di più dentro le profondità del cosmo, addentrandosi in meandri oscuri come l’astronomia e la fisica. Mi è piaciuto il parallelismo con l’album The Dark Side of the Moon dei Pink Floyd. Il prisma stampato in primo piano sulla celebre copertina si presta alla spiegazione della rifrazione della luce; e di come la sua variabilità abbia permesso agli astronomi di calibrare le misure cosmiche, anche per gli oggetti in movimento.

Questa è la chiave del terzo interludio, Alfonsina y el Mar (canzone argentina scritta nel 1969 da Mercedes Sosa). Il pezzo ruota attorno allo stesso pattern, che di volta in volta evolve dando vita a variazioni che modificano il tema iniziale. La musica trasmette un’atmosfera notturna; la melodia evoca un vago sentore di nostalgia, rimarcato dal suono delicato ma granitico di un eccellente Merighi al clarinetto.

Ancora più interessante è l’argomento successivo che precede il quarto brano in scaletta, Irlandaise. Il tema è l’oscillazione di luminosità delle stelle. Questo parametro è costante, fattore che ha permesso di ricavare la distanza dell’oggetto, attraverso appunto il calcolo di come cambia il fascio luminoso nell’arco di tempo.

Allo stesso modo, prosegue Simone, anche nella musica ci sono elementi regolati da una struttura in mutamento. Pulsano ed evolvono per poi tornare allo stesso punto. Come le cadenze, che permettono infatti di dare un senso di stabilità e suggerire all’ascoltatore un momento di pausa o una finale. Ma, aggiunge Simone, può sempre accorrere un imprevisto. Come la cadenza d’inganno, un passaggio armonico all’interno di un pezzo che vira sulla tonalità minore anziché quella maggiore.

Irlandaise gioca di continuo con questi cambi di tonalità: quando un arco melodico sembra arrivare alla sua fine, ecco che una risoluzione inaspettata cambia drasticamente la direzione della melodia. Creando così una diversità in continua progressione, la quale non può che far pensare all’idea di espansione dell’universo. Ancora oggi la grandezza dell’universo risulta infatti un aspetto impossibile da determinare con assoluta certezza e precisione. Simone è affascinato da questi temi ancestrali, ma sa di non avere tempo a sufficienza per affrontarli con noi questa sera.

E lo capisco: da qui sorgono infatti domande che hanno origine fin dal primo istante in cui gli uomini alzarono la testa in cielo, chiedendosi cosa ci fosse al di là dell’orizzonte. Tuttora questi quesiti mettono alle strette la comunità scientifica, ponendola di fronte a numerose sfide. Quanto è grande l’universo? La sua espansione è illimitata e infinita, oppure giungerà un momento in cui tutto cesserà di esistere?

La chiusura su questa finestra ancora aperta è la canzone The Great Gig in the Sky dei Pink Floyd. Non a caso il brano è incentrato attorno alla paura dell’ignoto e della morte. Mentre il clarinetto si diletta in vorticosi archi melodici, che rendono onore ai vocalizzi di Clare Torry (presente nell’incisone originale del 1973), lo spettatore ha il tempo di pensare alle parole che Simone ha volutamente lasciato in sospeso.

Il suono caldo e avvolgente di Merighi è ipnotico: si nota la bravura tecnica nel suonare lo strumento. E questo è presto detto: fra tutti, è lui quello che ha avuto maggiori esperienze nel campo musicale. Simone non si nasconde e ammette che non è un pianista di professione. Il suo lavoro verte sulla fisica e l’astronomia (e nel vederlo parlare, si vede e si sente parecchio di quanto abbia studiato in passato).

Ma con altrettanta onestà, conferma che la musica è stata ed è ancora oggi una sua passione. Da piccolo abbandonò gli studi musicali, ma nel proseguo della vita il destino gli ha fatto incrociare la strada di altre persone. Assieme a loro ha colto l’occasione per unire la sua conoscenza scientifica con la musica, intuendo come poteva esplorare i segreti dell’universo attraverso il mistero della lingua dei suoni.

Il paragone è sensato e questa sera, anche se non del tutto, l’esperimento si può dire compiuto. Dispiace sottolineare come la musica non abbia avuto a mio parere sufficiente spazio. Forse Simone avrebbe potuto relegare il ruolo di pianista ad un’altra figura, e occuparsi solamente della parte di divulgazione.

O forse si poteva evitare di scendere troppo nei particolari ma Simone, come mi spiega nel backstage dopo il concerto, ci teneva che questa sera fossero presenti persone realmente interessate e preparate. Lo dimostra il fatto che il progetto nasce dagli studi compiuti dai grandi scienziati del passato. La musica, mi dice, è stata quasi un riempitivo arrivata solo in seguito per rendere lo spettacolo più accessibile. Anche la scelta di un ensemble di stampo jazzistico è dettata da necessità pratiche.

Nonostante possa esserci qualche aspetto da rivedere per un’ipotetica versione futura, in sottofondo oltre alle note risuonano nella testa le immagini dei temi affrontati: dalla distanza della luna alla costellazione di Orione fino alle galassie più lontane.

L’idea del cielo, delle stelle e di quanto immenso sia l’universo, è un argomento davvero meraviglioso. Talmente criptico da risultare surreale, per non dire fantascientifico, nonostante la scienza venga spesso ricondotta ad una verità assoluta. E invece si scopre come anch’essa possa essere imperfetta, non sempre in grado di rispondere a delle domande. Soprattuto se rapportate al concetto di infinito.

Questo non ci impedisce di guadare verso il cielo e sognare ad occhi aperti. Riflettere su quanto noi creature viventi siamo piccole, e di quanto invece sia grande quello che sta fuori dall’orbita della Terra, a migliaia e migliaia di anni luce di distanza.

Tutto ha una fine: la vita degli umani, la vita delle stelle, e forse anche l’universo stesso. Ma esiste qualcosa di eterno? L’universo si espanderà all’infinito, oppure cesserà per sempre lasciando un vuoto?

A me piace pensare che come sia impossibile quantificare la grandezza dell’universo, anche la musica è un qualcosa di profondo e oscuro come il nero che avvolge lo spazio e immenso come le dimensioni di una galassia. Non si conoscono i limiti e le potenzialità di questo mezzo di espressione. E come gli scienziati proseguono nella ricerca, allo stesso modo i musicisti aspirano a comporre qualcosa che non sia stato ancora scritto. Nel tentativo di sorprendere sè stessi e, si spera, anche il pubblico!

Pietro Piffer

Organista Full Time Studente a Beni Culturali ma ciclista a tempo perso Appassionato di scrittura e cinema Laurea Triennale al Conservatorio F.A. Bonporti 2023

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