Locke, liberalismo e diritto naturale

Eugène Delacroix, la libertà che guida il popolo, olio su tela, 1830
Nel XVII secolo, dopo la fine del feudalesimo, si afferma in vaste aree del continente europeo l’assolutismo monarchico. L’assolutismo, come la parola stessa descrive, è un modello politico in cui il sovrano è il detentore assoluto di tutti i poteri dello stato, perciò sciolto da qualsivoglia vincolo esterno o limitazione. Uno dei maggiori teorici dell’assolutismo è stato il filosofo inglese Robert Filmer, vicino politicamente a Carlo I d’Inghilterra. Filmer sostiene che qualsiasi governo non monarchico non sarebbe legittimo, poiché il potere si trasmette patriarcalmente da Dio, ad Adamo, fino ai governanti dei regni e delle nazioni – derivazione divina del potere. L’atto di donazione con cui Dio ha concesso il potere ad Adamo, lo ha reso proprietario del mondo intero, di tutte le cose e di tutti gli esseri viventi; analogamente, in quanto discendenti di Adamo, i sovrani, sono parimenti proprietari sui beni e le terre che solo loro, possono poi concedere in uso ai sudditi. Con questa mossa Filmer mette in discussione la libertà personale, difendendo la prerogativa regia che, nel periodo della guerra civile inglese, è stata la grande arma teorica per tentare di legittimare la politica fiscale del re, necessaria per finanziare l’esercito. Tuttavia, diversi fattori porteranno all’opposizione alla dottrina assolutista, che come visto, è basata su una concezione profondamente legata alla divinità. I fattori principali che favoriranno l’emergere della nuova concezione politica saranno principalmente due: il primo è contraddistinto dal fatto che si rende necessaria l’espressione del cambiamento sotteso alla società europea dopo la fine del feudalesimo. Si rende pertanto essenziale, per l’emergente borghesia, la costruzione di una coscienza di sé. Il secondo punto, deriva dalla rottura dell’unità religiosa che segue dalla riforma protestante, che permetterà di svincolarsi da ogni fede ispirandosi al razionalismo cartesiano e concentrando l’analisi filosofica sulla ricerca delle leggi generali in grado di realizzare la convivenza sociale. Questa nuova coscienza razionale e laica che l’emergente società europea cerca di darsi, prende il nome di giusnaturalismo o diritto naturale. Il grande tentativo del giusnaturalismo, sarà quello di cercare di dare fondamento alla comune appartenenza al genere umano, non più a partire da presupposti teologici, ma, facendo leva sulla comune natura che tutti gli uomini condividono, creare un diritto universale che scaturisce dalla natura razionale dell’uomo.
John Locke, nel suo celebre “il secondo trattato sul governo civile”, parla della libertà come la capacità, tipicamente razionale e umana, di regolare le proprie azioni entro i limiti consentiti dalla legge di natura affinché gli altri siano liberi a loro volta. La legge naturale, è quella legge divina che la ragione cercando scopre, la quale vieta all’uomo di fare tutto ciò che è nelle sue possibilità per sabotare le possibilità d’esistere di altri individui, che in concreto, si costituisce come negazione dell’intromissione nell’altrui sfera dei diritti naturali – vita, beni, libertà. Locke sostiene cioè che l’uomo già nel mondo pre-politico, il cosidetto stato di natura, viene al mondo con degli obblighi specifici, come quello di non mettere a repentaglio la propria vita né quella altrui. L’uomo, è infatti una creatura divina che deve obbedire al creatore attraverso la legge di natura istituita da Dio stesso nella razionalità umana. Si scorge già da qui la netta diversità di interessi tra Locke e Hobbes: Hobbes, fonda uno stato di natura pienamente anarchico che, per dirla con Norberto Bobbio, è uno stato di “libertà senza ordine”, giungendo poi ad uno stato civile che è “ordine senza libertà”; mentre il grande sforzo di Locke, come già si vede nel tentativo di regolamentazione del pre-politico, è il ricercare un ordine che non sia l’antitesi, ma la garanzia della libertà. L’ordine non è il fine ultimo, ma il mezzo per salvare la libertà di tutti. E infatti, l’unico modo per salvaguardare la libertà di tutti, consiste nello scoprire, per poi far rispettare, le leggi naturali: solo in ciò consiste il buon governo ed il suo unico ed esclusivo obiettivo. Come già si può evincere, le leggi di natura di Locke sono lo snodo cruciale del suo pensiero politico, in quanto le obbligazioni che da queste derivano, non cessano quando si entra in società, ma anzi, vengono addirittura fortificate. Si può quindi leggere l’evolvere del pensiero lockiano come un grande percorso che passa dalla scoperta, al tentativo di far rispettare le leggi natura sotto la guida della ragione: solo il loro rispetto, garantisce la permanenza della libertà umana costituita da quella triade di vita, beni e libertà.
La genesi dello stato civile, si rende per Locke necessaria, in quanto nello stato di natura, l’interpretazione dell’omonima legge, è affidata alle mani di ciascun individuo, per cui ognuno ha il diritto di punire i trasgressori di quella legge secondo la propria coscienza. Nella trasgressione dalla legge di natura, il trasgressore dichiara implicitamente di vivere secondo una regola diversa da quella della ragione e della giustizia, che è la misura che Dio ha imposto alle azioni degli uomini per la loro reciproca sicurezza. Essendo questo un reato contro l’intera specie, ogni uomo, in base alla legge di natura, può reprimere o distruggere ciò che ad essa è nocivo, e quindi recare a chiunque abbia trasgredito quella legge un male tale da indurlo a pentirsi d’averlo compiuto. In questa condizione, in cui ognuno ha il potere esecutivo della legge di natura, va tenuto presente che l’amore proprio, l’indole personale, la passione, l’emozionalità e tante altre componenti della soggettività umana, porteranno le pene verso alcuni ad essere eccessivamente spietate, ed eccessivamente tenui verso altri. Questo stato di natura, è una condizione ove non esiste un giudice terzo; lo stato civile, interviene proprio a sanara questa mancanza, generando un’istituzione giuridico-burocratica tesa a porsi come giudice terzo ed imparziale, col fine di far rispettare la legge di natura, fissandola però ora per la prima volta con il potere di coercizione. Quindi, la società politica nasce e sussiste grazie al potere di preservare la triade composta da vita, beni e libertà.
Tuttavia, secondo Locke, non c’è società politica senza consenso popolare. Il potere politico, non è infatti qualificato esclusivamente dalla forza di coercizione, ma si definisce tale solo attraverso la legittimità, ovvero mediante il riconoscimento popolare, costituentesi nel patto sociale: usando un gergo weberiano, potremmo dire che già Locke definisce il potere politico come “forza di coercizione legittima”. La società politica nasce quindi dal passo indietro di ciascuno rispetto al potere che per nascita possiede, trasmettendolo ad un organo terzo ed artificiale che trae origine dalla forza naturale dei singoli individui uniti nel patto. Assolutismo e stato civile sono così agli antipodi nella concezione lockiana, poiché la monarchia assoluta non è in grado di migliorare gli inconveniente dello stato di natura, ma anzi essendo una forma politica che prevede il totale accentramento dei poteri su di un singolo, con la conseguente perdita imparzialità, finisce per radicalizzarne i problemi. La monarchia assoluta, è secondo Locke peggiore dello stato di natura, perché privo di limiti e pure della legge di natura, alla quale si sostituisce la legge del tiranno. Detta altrimenti, la monarchia assoluta è incompatibile con la società civile e non può perciò essere una forma di governo, poiché il fine della società politica è di evitare e porre rimedio a quegli inconvenienti delo stato di natura che necessariemente conseguono dall’arbitrarietà dei giudizi personali. Ma, il re assoluto, si trova esattamente in questo stato di natura rispetto a coloro che sottostanno al suo dominio. Per questo, lo stato assoluto è peggiore di quello naturale: mentre nell’ordinamento dello stato di natura si possiede la possibilità di giudicare del proprio diritto, difendendosi per quanto si può, senz’altro in modo precario; nello stato assoluto la proprietà è violata arbitrariamente, costantemente e in modo indiscriminato dal monarca.
Per evitare la deriva dispotica, Locke introduce principalmente due strumenti nelle mani della modernità per garantire un progresso in campo politico: la separazione dei poteri e lo stato limitato. La separazione dei poteri, raggiungerà la sua forma definitiva in piena età dei lumi con Montesquieu, che dividerà i poteri in legislativo, esecutivo e giudiziario. Certamente però, l’idea che la divisione del potere sovrano tra più soggetti sia un modo efficace per prevenire abusi è molto antica nella cultura occidentale, e si può già rinvenire nella riflessione della Grecia classica. In particolare, già Platone ne la “Repubblica”, parlò di indipendenza del potere del giudice da quello politico tipicamente esecutivo. Però solo con Locke questa teoria comincia ad assumere una fisionomia simile all’attuale, separando i poteri in legislativo, esecutivo e federativo – relativo alla politica estera e alla difesa. Il legislativo, avrebbe fatto capo al parlamento, mentre esecutivo e federativo al monarca. Dove si collochi in questa tripartizione il potere giudiziario è una domanda che pare a tratti aperta, se non altro perché si trovano in vari articoli e saggi due risposte nettamente diverse. La tesi più diffusa è quella secondo cui il potere giudiziario sia assorbito da quello esecutivo. Tuttavia, quella a cui preferisco aderire, è quella argomentata da Norberto Bobbio, che sostiene che in realtà tra legislativo e giudiziario non vi sia alcuna differenza effettiva, poiché rappresentano due aspetti diversi del medesimo potere: infatti, se il fine del potere legislativo è quello di dispensare la giustizia sotto forma di legge positiva, questa attività richiede al contempo la possibilità di poter fare le leggi e applicarle al momento opportuno. Per dirla altrimenti, all’interno del legislativo troviamo l’assemblea che decide le leggi da stabilire e i giudici che le applicano nei casi concreti, ma entrambi, hanno il medesimo compito di discriminare il giusto dall’ingiusto.
Ora, bisogna anche osservare che in Locke, rispetto a Montesquieu, non esiste un rapporto paritario tra i poteri, ma ne esiste uno, il legislativo, che slivella rispetto agli altri due. È il legislativo ad essere l’immediata conseguenza del patto sociale degli individui, e come tale, è l’incarnazione della volontà di coloro che hanno contratto il patto: ciò non deve affatto stupire nella costruzione lockiana. Infatti, il fine dell’ingresso degli uomini in società è la conservazione della loro proprietà, e il mezzo per raggiungere tale scopo è la legge. Per questo, in ogni società, il potere politico supremo è il legislativo, ossia il potere di stablire le leggi. Formato quello che è concretamente il parlamento, poi, i suoi componenti voteranno fondando un organo esecutivo e federale. Dunque, il potere legislativo, come tutti poteri dello stato politico, è un potere limitato. Infatti, il potere legislativo, non ha tecnicamente la possibilità di legiferare arbitrariamente rispetto alla vita e ai beni del popolo. Esso, non è altro che il potere congiunto di ciascun memebro, e in quanto tale, non può fare nulla di più di quanto quelle persone potevano nello stato di natura. Il punto è che nessuno può trasferire ad un altro un potere maggiore di quanto non abbia su di sé; e nessuno ha un potere arbitrario su se stesso o su altri tali da distruggere la sua vita o portare via ad altri la vita o la proprietà. Se in Hobbes vengono conferiti al sovrano tutti i poteri e i diritti del soggetto, in Locke, vengono ceduti solo quei poteri che servono a far vivere la società in una condizione più sicura. Ci sono dei diritti che sono però inalienabili, ovvero che non possono essere trasferiti ad altri, come la propria libertà, la proprietà sul corpo e sui beni materiali e la propria sopravvivenza – la quale per giunta appartiene a Dio. Lo stato non può, né mai potrà andare contro questi diritti inalienabili, negare ciò, significa contraddire la nozione stessa di stato nell’accezione di Locke: lo stato non può andare contro i diritti naturali perché è nato proprio per garantirli. Non proprio della medesima idea si mostra invece Hobbes che, adopera la dottrina del diritto naturale non già per limitare il potere civile, come fatto da Locke, ma per rafforzarlo. Come nota acutamente Roberto Bobbio nel saggio “Locke e il diritto naturale”, Hobbes utilizza mezzi giusnturalisti per raggiungere fini positivistici. Nello stato hobbessiano, gli individui sono obbligati necessariamente ad obbedire alle leggi positive proposte dal Leviatano, e ciò signifca che non esiste più altro diritto che quello posto dal Leviatano. Si potrebbe a ciò obiettare che, seppur nel contratto sociale hobbessiano l’individuo ceda molti più diritti rispetto a quello lockiano, rimane incolume il suo diritto alla vita. Il che vuol dire che nonostante tutto, sarebbe ipoteticamente possibile distanziarsi dal potere legale se questo nega costitutivamente il proprio diritto ad esistere. Questa risposta per certi aspetti valida, lo è per altri meno. Infatti, per fare si che le leggi naturali sulle quali tanto la costruzione politica di Hobbes tanto quella di Locke si fondano, siano rispettate, occorre obbedire al potere civile, il che vuol dire osservare i suoi comandi, cioè non le leggi naturali, ma quelle civili. Volendo essere più hobbessiani Hobbes – questa espressione è utilizzata da Bobbio per sottolineare come, portando alle estreme conseguenze la teoria hobbessiana, si raggiungano dei risultati che persino il pensatore inglese probabilmente non aveva immaginato –, si potrebbe argomentare che anche il diritto alla vita, l’unico diritto che, come detto, è inalienabile, non è protetto: infatti, basterebbe che il sovrano decidesse che l’esecuzione capitale non fosse da considerarsi un omicidio, e il suddito non avrebbe alcun diritto di sottrarvisi – questo in Hobbes per lo meno –, ed ecco che la legge naturale si trasforma nel suo contrario, cioè nell’obbligo di obbidire prima di tutto alle leggi civili. Se in Locke la legge di natura rimane sempre più forte di quella positiva, in Hobbes la legge di natura viene messa al servizio di quella positiva, arrivando ad un punto tale che, diventa la legge civile stessa a determinare cosa intendere per legge naturale; se in Hobbes lo stato civile deve provvedere ad una legge, per Locke soltanto ad una sorta di garante della legge stessa che, preesiste e continua ad avere vigore nel nuovo stato. Da ciò si spiega molto bene anche perché Hobbes giunge alla formulazione di uno stato assoluto, mentre Locke a quella di uno stato limitato: l’obiettivo di Hobbes è quello di cancellare ogni traccia dallo stato di natura, mentre Locke vuole semplicemente garantire la convivenza fondata sulla legge di natura che lo stato civile deve solo tutelare. In Hobbes, lo stato civile deve essere la negazione dello stato di natura – la totale mancanza di libertà all’interno dello stato civile nel sistema hobbessiano, ritengo vada cercata nella sua gnoseologia e non all’interno del sistema politico –, quando per Locke deve esserne semplicemente la forma migliore.
Ma è vero, come spesso si crede, che tutti i sistemi politici liberali e democratici dalla modernità alla contemporaneità si reggono sul diritto naturale?
Vi è una verità che terremota alle origini la dottrina del diritto naturale: ovvero che mai e poi mai è lecito derivare la conoscenza del giusto e dell’ingiusto dall’analisi della realtà naturale. Alla realtà non è immanente alcun valore, in quanto essa, per quanto la si analizzi con cura, non racchiude nulla, nessun bene o giusto di nessun tipo. Mondo dei valori e dei fatti sono universi distinti e non comunicanti. Da ciò deriva che non è lecito far derivare un valore da un fatto, così come non è mai lecito derivare l’essere dal dover essere: tutte le teorie del diritto naturale fanno l’errore di derivare la loro base valoriale da un giudizio di fatto, che di suo, non può ch essere scevro da valori. Il modo per fondare giudizi di valore è uno solo: se dico che è bene che x faccia y, non posso farlo se non facendo riferimento ad un altro giudizio di valore, che a sua volta si richiama ad un altro giudizio, in una catena di richiami lunga e interminabile, ma che termina sempre con il richiamo ad un ulteriore valore. Il giusnaturalismo nasce quindi da una valutazione positiva di ciò che è naturale. Ma con la fine delle teologie tradizionali, viene meno la credenza in una natura buona e benefica, in ultima analisi, viene meno la convinzione per la quale la natura è la manifestazione di un ordine razionale al quale bastava conformarsi per realizzare il regno della giustizia eterna. Dall’osservazione naturalistica, si può al massimo derivare che l’uomo ha queste o quelle caratteristiche e inclinazioni naturali e che è dunque per natura fatto in un modo o in un altro. Ma che questo modo di essere fatto, sia un bene o un male, è tutto un altro discorso. Ciò che invece rinasce oggi, con il falsato nome di diritto naturale, non è una teoria morale, ma l’eterna esigenza che alberga nel cuore di tutti gli esseri umani, che la vita e alcune libertà dell’individuo siano salvaguardate e protette dalla pretesa di quello che è il Leviatano moderno. In altri termini, quello che rinasce oggi, è il tentativo di riconoscimento della dignità umana1.
Note:
1 Norberto Bobbio, Locke e il diritto naturale, ed. Giappichelli, 2017, pp. 44-52.
Bibliografia:
John Locke, Il secondo trattato sul governo, ed. Rizzoli, 1998;
Norberto Bobbio, Locke e il diritto naturale, ed. Giappichelli, 2017.
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